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È morto l’ 8 dicembre di ventinove anni fa, ammazzato con cinque colpi di pistola. Un fan squilibrato, si è detto. L’inchiesta venne chiusa troppo in fretta, ma molti pensano ancora che dietro all’assassinio ci sia stato un complotto dei servizi segreti per eliminare un leader scomodo. Al suo funerale c’era una folla incontenibile, avvolta nella sensazione che il sogno era davvero finito. Lo sparo di un “folle” e un funerale imponente: proprio com’era accaduto per il mahatma Gandhi, Martin Luther King e poi per John e Bob Kennedy.
John Lennon, come si sa, era di Liverpool, ma dopo l’unione con Yoko Ono e la separazione dai Beatles volle trasferirsi a New York, città che amava moltissimo, nella quale si trovava a proprio agio “per il modo di vivere e di pensare”. Negli Stati Uniti John aveva molti amici, e venne subito introdotto negli ambienti intellettuali e radicali americani. Partecipava anche alla vita politica del paese, coinvolgendosi in manifestazioni, concerti, iniziative pubbliche. Il governo non gradiva quella presenza, troppo visibile, troppo chiassosa, troppo scomoda. La CIA iniziò a raccogliere un dossier su Lennon, per documentare le prove di un presunto antiamericanismo dell’ex beatle. Lennon fece dichiarazioni contro la guerra del Viet Nam, contro l’industria bellica, le spese militari, la politica imperialista, partecipò attivamente al movimento per la pace, anche con sostanziosi finanziamenti. Fu in quel periodo che compose “Power to the people”. Per fare gli auguri di Natale fece riempire le città americane e le principali capitali del mondo di manifesti con la scritta “War is over” (“la guerra è finita – se tu lo vuoi”, firmati “con amore, John e Yoko, da NY”). A tutti i capi di Stato inviò una ghianda, dicendo loro di piantarla e guardare crescere la quercia, anzichè dichiarare una guerra. Insieme a Yoko comprò intere pagine dei giornali americani per pubblicare i loro pensieri pacifisti. Quando le autorità gli negarono il visto per il permesso di soggiorno, fra il signor Lennon e il governo USA, iniziò una lunga battaglia legale. Nixon stesso diede l’ordine di allontanarlo: era un “indesiderato”. Durante la campagna elettorale in ogni angolo d’America dove c’era una manifestazione del partito Repubblicano con Nixon, lì John organizzava un concerto rock di protesta contro la guerra. Alla fine vinse John. Riuscì a stabilirsi definitivamente a NY, fece un figlio con Yoko, e si dedicò a tempo pieno alla paternità nella città che amava. Riconciliato con se stesso e con gli States regalò al mondo intero “Imagine”, il manifesto della nonviolenza. Poi, l’assassinio. Ma la parte migliore d’America ha accolto Lennon come un proprio figlio, dedicandogli dopo la sua morte quell’angolo di Central Park dove egli andava sempre a passeggiare con il suo bambino, come un americano qualunque. Affiancare il nome di John Lennon a grandi leader spirituali e politici può suonare come una provocazione. Ma quando si parla del mito di Lennon, non lo si fa per celebrarne le virtù personali: di Lennon amiamo la musica, la poesia, il suo essere personaggio pubblico e la sua vita contraddittoria, che lo fa sentire simile a tutti noi. Non ha mai nascosto la sua fragilità, arrivando persino a scrivere quel capolavoro che è “Help!”, un grido d’aiuto personale lanciato proprio ai suoi stessi fans. Di Lennon ci importa l’influenza positiva che ha avuto su tante generazioni di giovani. Nel mito Lennon un posto d’onore spetta al famoso bed-in (una settimana in un letto d’albergo ad Amsterdam, lui e Yoko, a rilasciare interviste a giornali di tutto il mondo sul tema della pace e contro le guerre). Fu in quell’occasione che Lennon compose e registrò in diretta “Give peace a chance”, l’inno del movimento pacifista mondiale cantato poi dai giovani studenti democratici di piazza Tien an men a Pechino, dai dissidenti che abbattevano il muro di Berlino, dai sostenitori di Mandela, dai veterani del Viet-nam che restituirono le medaglie.
I giovani russi al tempo del crollo dell’Unione Sovietica, raccontavano come furono le canzoni dei Beatles, e in particolare la pacifista “Revolution”, ascoltate clandestinamente alle radio occidentali, ad incrinare la loro fede nel regime. Lennon fu l’unico baronetto a restituire il titolo alla Regina per protestare contro il coinvolgimento dell’Inghilterra nel commercio mondiale delle armi.
Il Lennon quarantenne aveva idee molto chiare sulla nonviolenza: “La mia filosofia di vita è piuttosto semplice: pace, nonviolenza, e tutto in armonia con il resto del mondo. È ovvio che in tutti noi c’è della violenza, però si deve essere capaci di incanalarla o di gestirla in qualche modo. D’altra parte bisogna essere consapevoli che o ci si impegna per vivere in un mondo di pace, oppure si è destinati a morire in un mondo in guerra. Noi dobbiamo avere speranza mantenendola viva fra di noi. Io ho grandi speranze per il futuro”.
Si è detto che dei quattro Beatles, John era il più geniale. Ma questo non basta a spiegare il suo mito. Per capire Lennon bisogna scavare nella sua biografia: cresciuto senza padre e senza madre, affidato ad una zia, studente mediocre, negli anni ’50 è un tipico teddy boy attaccabrighe.
Senza nemmeno accorgersene si trova catapultato nel precocissimo successo dei Beatles: soldi, droga, follie da rock star. Si sposa e ha un figlio di cui non si occupa, travolto dal tour mondiale. Poi, finalmente, l’amore per Yoko Ono, la voglia di distruggere la gabbia d’oro dei Beatles, le crisi esistenziali, l’uscita dalla droga, la nascita di un nuovo figlio, la rinuncia alla musica per fare il padre e il marito. La rinascita.
Quello degli ultimi anni, è un Lennon riconciliato con se stesso, con i Beatles e con il mondo: “Non sto più cercando niente. Le cose sono semplicemente così come sono. Non rimpiango e non rinnego niente di quello che ho fatto, davvero, a parte forse aver ferito altre persone. I Beatles sono finiti, ma io voglio ancora bene a quei ragazziŠ Ho sempre avuto l’idea della pace: si poteva già intuire dalle nostre prime canzoni. Ancor oggi il messaggio di fondo è sempre lo stesso: Amore”. Nell’ultimo periodo della sua vita, quasi profetizzando la fine prematura, Lennon si riconciliò anche con Dio: “Ho sempre sospettato che ci fosse un Dio anche quando pensavo di essere ateo. Sono credente e mi sento pieno di compassione. Lui è il potere supremo, Lui non è né buono né cattivo, né bianco né nero: è e basta. Non ho paura di morire. Sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo uscire da un’auto per salire su un’altra”.

A fare di John un personaggio “umano” (molti suoi fans, compreso chi scrive, lo consideravano un fratello maggiore) è stata anche la sua ingenuità e il suo facile entusiasmo: si imbattè in molti ciarlatani, profittatori, cui lui dava fiducia e soldi, fino a che, dopo aver perso svariati miliardi, fu Yoko ad amministrare il capitale di famiglia mentre John tornò a fare solo l’artista.
Ma ciò che forse ha contribuito maggiormente a creare il mito Lennon è quel suo ritiro volontario dalla scena. Risolti con la psicanalisi i problemi di mancanza affettiva materna e paterna, trovato un rapporto equilibrato con Yoko, ha abbandonato musica e affari per dedicarsi a tempo pieno a fare il papà casalingo del secondo amatissimo figlio, Sean. Una scelta che l’ha posto ancora una volta controcorrente, anticipatore di quella riscoperta dei valori domestici e degli affetti familiari che molti ora inseguono e che Lennon ha testimoniato nell’ultimo album, uscito postumo.
Rileggendo oggi le sue dichiarazioni, che facevano tanto scalpore, si capisce quanto Lennon fosse avanti non solo come musicista, ma anche come intellettuale: “Per me vale ancora quello che ho scritto più di trent’anni fa in Revolution, quelle parole esprimono bene ciò che provo tutt’ora nei confronti della politica. Non contate su di me se di mezzo c’è la violenza. Non aspettatevi che salga sulle barricate se non con un fiore. A cosa serve mettere le bombe a Wall Street? Se vuoi cambiare il sistema, cambia il sistema, non serve a niente ammazzare la gente. Se vuoi la pace non la otterrai mai con la violenza. L’unico sistema per assicurare una pace durevole è cambiare la nostra mentalità: non c’è altro metodo. I fini non giustificano i mezzi. La gente ha già il potere; tutto quello che noi dobbiamo fare è prenderne coscienza. Alla fine accadrà, deve accadere. Potrebbe essere adesso o fra cento anni, ma accadrà”.
Quello che resta non è solo nelle canzoni, ma soprattutto nella sua immagine, nel suo volto con lo sguardo ora ironico ora malinconico, dal quale scaturiva l’energia dispensata a tante generazioni che attraverso la sua musica e le sue parole hanno trovato alimento per far crescere importanti movimenti culturali o politici.
Per questo Lennon è uno dei grandi personaggi del novecento. il menestrello della nonviolenza.

(Le citazioni sono tratte dall’autobiografia “The Beatles Anthology” Ed. Rizzoli, 2000)