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Archivi Mensili: aprile 2018

Scoop: vi diciamo dove sono i pacifisti

19 giovedì Apr 2018

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I giornalisti da salotto, quelli che si divertono ad intervistarsi tra di loro e ad esternare opinioni sull’annosa questione “dove sono i pacifisti?”, dovrebbero cimentarsi, se ne fossero ancora capaci, con due tipologie della loro nobile professione, troppo spesso dimenticate: il giornalismo d’inchiesta e il giornalismo di guerra. Sarebbero obbligati ad abbandonare lo stereotipo su cui si sono adagiati da decenni, quello del pacifista che ad ogni rumor di guerra scende in piazza per agitare la bandiera arcobaleno, pronti ad accusarlo di volta in volta di inutilità, di antiamericanismo, di velleitarismo o di ingenuità; se invece non lo vedono, eccoli pronti a dire che il pacifismo è morto.

Se i direttori dei giornali, anziché limitarsi ad aprire le loro agende per intervistare i soliti esponenti, spesso autoproclamatisi rappresentanti del movimento, incaricassero qualche giornalista di fare lo sforzo di un’inchiesta, scoprirebbero cose molto interessanti.

Scoprirebbero che il pacifismo inane, da milleottocento, fu già superato storicamente ad inizio novecento proprio da Gandhi, che voltò pagina passando dal pacifismo imbelle alla nonviolenza attiva: “il pacifismo codardo è la malattia infantile della nonviolenza coraggiosa”. Sarà bene, quindi, che i critici del movimento pacifista odierno si aggiornino, poiché sono rimasti indietro di oltre un secolo.

Oggi il movimento pacifista e nonviolento è maturo e non si fa dettare l’agenda politica dai titoli di giornale, ma segue una propria strategia, conduce le proprie campagne, costruisce e allarga reti di relazioni, agisce dentro i conflitti reali. Non lo si trova nelle piazza a fare marce autoreferenziali. Lo si trova a lavorare sul campo, dentro ai movimenti che vogliono cambiare la realtà in meglio.

Oggi i pacifisti possono mettere in atto capacità di studio, elaborazione ed analisi: dal controllo dell’export di armi, alle denunce sulle falle del progetto F35, fino alla capacità di scoperchiare il caso della fornitura di armi italiane all’Arabia Saudita, coinvolta nel conflitto nello Yemen, che stanno provocando una vera e propria catastrofe umanitaria. Sulla Siria, sui venti di guerra nel Medio Oriente, nel Mediterraneo, sui disastri delle politiche belliche delle potenze militari, i pacifisti hanno analisi approfondite, e proposte concrete per un cambio di rotta necessario.

I pacifisti nonviolenti hanno lavorato decenni, ed ora hanno formato e inviato all’estero centinaia di giovani del servizio civile per attività di pacificazione in aree di conflitto o a rischio, vere missioni di pace, civili e non militari.

Il pacifismo italiano attua anche una politica di relazioni e solidarietà internazionale. Volontari italiani partecipano a progetti di riconciliazione e soluzione nonviolenta dei conflitti in luoghi difficili. E’ un modo per aiutare la nascita e lo sviluppo dei movimenti nonviolenti anche in contesti di guerra.

Vi sono poi decine di migliaia di giovani che ogni anno svolgono il servizio civile nazionale, protagonisti nell’attuare il dovere costituzionale della difesa della Patria, che non è solo difesa militare.

Sono solo alcune piste di lavoro per chi avesse voglia di uscire dalla redazione e consumare un po’ di suole delle scarpe. Sono moltissime le sedi dei movimenti per la pace dove trovare materiali, archivi, indirizzi, persone che vale la pena intervistare. Per gli opinionisti più pigri possiamo suggerire di dare una letta, e qualche volta anche pubblicare, i tanti comunicati stampa che le reti della pace e del disarmo emettono con cadenza quotidiana: sono sempre notizie di prima mano.

E per quelli ancora più pigri, consigliamo la lettura dei siti delle associazioni pacifiste e di alcune riviste, come Nigrizia, Mosaico di pace, Azione nonviolenta, dove si può leggere un ottimo giornalismo di pace.

Ultimo suggerimento: oltre a chiedersi “dove sono i pacifisti”, ogni tanto ci si chieda anche dove sono le missioni militari: quante sono, cosa fanno, quanto costano, che risultati hanno ottenuto; sarà molto interessante comparare costi e benefici nel settore militare e costi e benefici nel settore della prevenzione nonviolenta dei conflitti.

“La nonviolenza è lo stile di una politica per la pace”, lo dice Papa Francesco; se ne potrebbero accorgere anche i direttori dei grandi giornali.

In fondo il giornalismo è la ricerca della verità, e la verità è sempre la prima vittima della guerra.

Lo scandalo di Martin Luther King: il potere dell’amore nero e americano

05 giovedì Apr 2018

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Il 4 aprile di cinquant’anni fa, Martin Luther King si stava preparando in albergo prima di recarsi ad un comizio indetto per quel giorno. Dopo essersi annodato la cravatta uscì sul balcone. La pallottola, sparata da un fucile di precisione, lo colpì a morte. Aveva sempre saputo che quella sarebbe stata la sua fine. Nel discorso che aveva tenuto la sera prima, aveva detto: “Desidero soltanto compiere la volontà di Dio. Egli mi ha concesso di salire in cima alla montagna. Io ho guardato oltre e ho visto la Terra Promessa. Forse io non arriverò fino là con voi. Ma voglio che voi sappiate, questa notte, che noi insieme, come popolo, giungeremo alla Terra Promessa. Per questo oggi sono felice. No, non mi preoccupa più niente. Non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto l’arrivo del Signore, il suo splendore.”
Nella sua teoria e pratica della nonviolenza Martin Luther King si è ispirato al mahatma Gandhi: “Se l’umanità deve progredire, la figura di Gandhi è imprescindibile”. Per King la forza della nonviolenza era il potere dell’amore: “Ma quando parlo d’amore non parlo di una debole e sentimentale corresponsione. Parlo di quella forza che tutte le grandi religioni hanno considerato come il supremo elemento unificatore della vita. L’amore è in qualche modo la chiave che apre la porta che conduce alla realtà ultima”.
Egli ha avuto due avversari: il razzismo del potere bianco e la violenza delle pantere nere. Ha quindi dovuto impostare sempre una strategia su due fronti e alla fine la sua nonviolenza ha vinto e convinto: “La compassione e la nonviolenza ci aiutano a considerare il punto di vista del nemico, ad ascoltare le sue domande, a conoscere il suo giudizio nei nostri confronti. Giacché dal suo punto di vista possiamo davvero scorgere la fondamentale debolezza della nostra propria condizione, e se siamo maturi possiamo imparare, crescere e trarre profitto dalla saggezza dei fratelli che sono definiti come i nostri avversari”.


La nonviolenza di Martin Luther King ha lasciato un segno indelebile su tutta l’umanità e ci ha insegnato con i fatti che il vero amore fa bene a chi lo fa e a chi lo riceve: “L’approccio nonviolento non cambia subito il cuore dell’oppressore. Agisce prima sui cuori e le anime di coloro che vi si impegnano. Dà loro una nuova dignità; risveglia risorse di forza e coraggio che non sapevano neppure di possedere. Infine raggiunge l’oppressore e scuote la sua coscienza al punto che la riconciliazione diventa una realtà”
Il sito dell’associazione americana “Peaceful Tomorrows” (gruppo “Per un Domani di Pace” fondato da 80 famiglie di vittime dell’11 settembre che cercano un’alternativa nonviolenta alla guerra contro il terrorismo internazionale) si apre con una significativa citazione del Rev. Martin Luther King Jr.:

“Il passato è profetico nella misura in cui afferma che le guerre sono poveri scalpelli per scolpire domani di pace. Un giorno dovremo accorgerci che la pace non è solo un obiettivo lontano da raggiungere, ma è il mezzo per raggiungere quell’obiettivo. Dobbiamo perseguire fini di pace con mezzi di pace. Per quanto tempo ancora dovremo continuare i nostri giochi di morte e di guerra prima di ascoltare l’appello doloroso degli innumerevoli morti e mutilati delle guerre passate?”

Per comprendere la grande influenza che il pensiero e la prassi di King hanno ancora sul movimento pacifista mondiale, confermata dalla enorme manifestazione “March for our lives” del 24 marzo scorso che ha invaso le strade di Washington contro la violenza delle armi, è interessante capire come King sia arrivato all’opzione nonviolenta, e come la sua strategia si è evoluta nel tempo.

Montgomery è la capitale dell’Alabama.
Martin Luther King, pastore battista, vi è arrivato nel 1954 come guida di una delle più importanti chiese nere della città, che a quell’epoca è composta da 70.000 bianchi e da 50.000 neri; il 63 % delle donne nere sono domestiche presso i bianchi, il 94% delle case bianche ha i servizi igienici, contro il 31% di quelle dei neri; il reddito medio dei bianchi è il doppio di quello dei neri; i tassi di alcolismo, delinquenza e disoccupazione sono molto più alti tra i neri che tra i bianchi; gli iscritti neri nelle liste elettorali sono solo 2.000 contro i 30.000 neri maggiorenni. Nella città vige il regime segregazionista: scuole, giardini pubblici, servizi sono tutti separati. I migliori sono riservati ai bianchi, i peggiori ai neri. I posti nei cinema, nei teatri, negli autobus sono separati. Nei negozi i neri vengono serviti per ultimi e devono fare la coda. Spesso vengono insultati dai bianchi.

Questo è il contesto nel quale King ha iniziato ad agire. Ma non si può disgiungere l’azione di King, dalla sua fede cristiana. Una fede profonda che Aldo Capitini (in Azione nonviolenta del Maggio 1968) ricostruisce così: “Gesù Cristo come la persona più preziosa del mondo; Dio come Amore; l’amore per i nemici, la condizione del peccatore ed il bisogno della grazia, l’aprirsi della fede all’incontro con il Dio personale, la speranza della unità ecumenica; il Discorso della Montagna ed il metodo gandhiano della resistenza nonviolenta”.

Nato nel 1929, figlio e nipote di un pastore battista della classe media, Martin Luther ha frequentato importanti college in Pennsylvania e a Boston, ed è stato uno dei migliori studenti. Ha conseguito due lauree: in teologia ed in filosofia. Durante gli studi ha approfondito le opere di Thoreau e di Gandhi.
Nel 1955, con un volantino ciclostilato, King organizza il famoso boicottaggio degli autobus, a seguito dell’arresto di una giovane nera di Montgomery, Rosa Parks, che si è rifiutata di cedere il posto ad un bianco. Tutti i neri della città aderiscono in massa alla protesta, che dura 382 giorni. I neri non utilizzano più gli autobus pubblici: vanno a piedi, in taxi, si organizzano con mezzi privati. Un braccio di ferro che mette in ginocchio l’azienda del trasporto pubblico. La vittoria giunge a seguito di una sentenza della Corte Suprema del 13 novembre 1956 che dichiara illegittima la segregazione sugli autobus dell’Alabama.
Con la lotta di Montgomery King diventa un simbolo ed un leader a livello nazionale.
Nel 1958 esce il suo primo libro “In cammino verso la libertà”, che racconta la storia del boicottaggio. Mentre ne firma alcune copie in una libreria a New York, viene accoltellato quasi mortalmente.
Nel 1959, ristabilitosi, compie un viaggio in India per approfondire la conoscenza del metodo gandhiano. Al rientro dal viaggio dice: “Gesù Cristo mi fornisce lo spirito e i motivi; Gandhi mi fornisce il metodo”.
Nel 1962 ad Albany, in Georgia, organizza una campagna nonviolenta contro la segregazione nei ristoranti.
Nel 1963 a Birmingham, epicentro dell’odio razziale, dà avvio ad una vasta campagna contro la segregazione. La repressione è durissima. Lo stesso King, insieme ad altri tremila attivisti neri, viene arrestato. La liberazione arriva per interessamento dello stesso Presidente Kennedy. Intanto l’integrazione arriva nelle scuole, nelle biblioteche e in altri luoghi pubblici.
La rivoluzione nonviolenta nera si estende a tutto il paese. Il 28 agosto King guida la marcia dei 250.000 su Washington. La reazione dei conservatori è brutale: scoppiano le bombe nei luoghi frequentati dai neri, con molti morti.
Nel 1964 King riceve il Premio Nobel per la Pace e, divenuto un leader mondiale, alza il tiro.
Nel 1965 in Alabama avvia la campagna per il diritto del voto ai neri.
Nel 1966 si trasferisce a Chicago fra i baraccati neri, e conduce una campagna per i loro diritti sociali, civili, economici. Mentre fa un comizio subisce un altro attentato.
Nel 1967 si schiera con il movimento pacifista contro la guerra del Vietnam.
Nel 1968 è a Memphis, nel Tenessee per organizzare manifestazioni di appoggio agli spazzini neri della città che rivendicano il diritto di iscriversi ad un sindacato. Il 4 aprile viene assassinato. Giusto in tempo per impedirgli di dare vita alla “Grande marcia di emancipazione dei poveri attraverso l’America” che aveva organizzato per l’estate a Washington: come atto provocatorio proprio davanti alla Casa Bianca avrebbe fatto costruire una baraccopoli: che il Presidente veda come vivono milioni di americani! Si era convinto che era giunto il tempo di trasformare la lotta per i diritti civili dei neri, in lotta per l’emancipazione economica di tutti, bianchi e neri.
In dieci anni di campagne nonviolente, King ha trasformato l’America e se stesso.
Da nero che rivendica dei diritti è divenuto un americano che lotta per migliorare il proprio paese. Non parla più a nome dei neri, ma parla da americano. Nel suo ultimo articolo, dice:
“Le condizioni dei poveri peggiorano; i posti di lavoro diminuiscono; le scuole si rivelano sempre più inadeguate; le cure mediche sono inaccessibili per milioni di poveri…Gli americani sono infettati dal razzismo, ecco il pericolo. Ma paradossalmente essi sono anche contagiati dagli ideali democratici, e questa è la speranza. Mentre essi fanno del male, hanno anche il potenziale per fare del bene. Por fine alla miseria, estirpare il pregiudizio, liberare una coscienza tormentata, creare un domani di giustizia, tutto ciò è degno dell’ideale americano”.

Fra i tanti insegnamenti, a me pare che King ci lasci soprattutto una scrupolosa attenzione al metodo usato nelle lotte. Per educare i neri a viaggiare sugli autobus integrati, senza accettare le provocazioni, King organizza un capillare lavoro nelle scuole, facendo distribuire un volantino contenente “Suggerimenti per gli autobus integrati”:
“Non tutti i bianchi sono contro gli autobus integrati. Accetta la buona volontà che possa venire dalla parte di questi; sii calmo e amichevole; orgoglioso, ma non arrogante; gioioso ma non turbolento; parla il meno possibile e sempre con tono calmo; sii abbastanza amabile da assorbire la cattiveria e la incomprensione al punto da volgere il nemico in amico”.
La disobbedienza civile del movimento di King è dettata dall’amore non dall’odio.
Per King è importante che il rigore nel metodo nonviolento sia mantenuto anche dopo l’abolizione della segregazione. La sua preoccupazione è che “noi non dobbiamo considerare questa come una vittoria sui bianchi, ma una vittoria per la giustizia e la democrazia”.

Ma la sua nonviolenza non è solo una tecnica. E’ insieme mezzo e fine.
“E’ probabilmente vero che molti dei neri non credevano nella nonviolenza come filosofia di vita, ma a causa della loro fiducia nei propri dirigenti e del fatto che la nonviolenza era loro presentata come pura espressione di cristianesimo in atto, essi erano disposti ad usarla come tecnica. Certo, la nonviolenza nel suo vero senso non è una strategia che si possa usare semplicemente come espediente del momento; la nonviolenza è in prima istanza un modo di vita che l’uomo assume per la netta moralità delle sue esigenze. Ma pur ammesso ciò, la volontà di usare la nonviolenza come una tecnica è un passo in avanti. Per chi è andato così avanti in questo passo, è più probabile che adotti poi la nonviolenza come modo di vita”.
Pur mantenendo gli stessi princìpi e la stessa fede, King ha saputo contestualizzare la nonviolenza gandhiana, applicandola alla moderna società americana.
In un’America che ha perso l’anima, impaurita e paralizzata dalla guerra infinita iniziata con Bush e che prosegue con Trump, dove “America first!” è diventata la politica di un fortino che si rinchiude costruendo muri che lo imprigionano, la speranza occidentale può ripartire da Martin Luther King.

* Direttore di Azione nonviolenta

Bibliografia essenziale in italiano.

M.L. King, T. Merton, La rivoluzione negra, La Locusta, Vicenza 1965
M.L. King, La forza di amare, SEI, Torino, 1967
M.L. King, Marcia verso la libertà, Andò, Palermo 1968
M.L. King, Il fronte della coscienza, SEI, Torino, 1968
M.L. King, Oltre il Vietnam, La Locusta, Vicenza 1968
M.L. King, La misura dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1969
M.L. King, Perché non possiamo aspettare, Andò, Palermo 1970
M.L. King, Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, SEI, Torino 1970
M.L. King, Pregare con Martin Luther King, a cura di Silvia Albini, Dall’Oglio Milano 1982
M.L. King, Lettera dal carcere di Birmingham, Quaderni di Azione nonviolenta, 1993
M.L. King, Io ho un sogno, scritti e discorsi che hanno cambiato il mondo, SEI, 1993

L’antifascismo nonviolento di Aldo Capitini

05 giovedì Apr 2018

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Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, il leader socialista Pietro Nenni annotava nel suo diario: “E’ morto il prof. Aldo Capitini. Era un’eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. Lo conoscevo poco di persona. Invece avevo con lui una vecchia collaborazione epistolare nel senso che mi scriveva sovente di ognuno dei problemi morali della società contemporanea. Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello.”
Infatti, se oggi la nonviolenza ha piena cittadinanza politica in Italia, lo dobbiamo principalmente ad Aldo Capitini (1899-1968), filosofo e fondatore del Movimento Nonviolento.


Già negli anni trenta Capitini scopre la dimensione politica di Gandhi e intravede nella non-collaborazione la forza capace di sconfiggere l’oppressione del regime fascista e la via della resistenza nonviolenta all’ormai vicino secondo conflitto mondiale.
Capitini studia il pensiero e l’azione del Mahatma (nonmenzogna, noncollaborazione, nonviolenza) e introduce nel dibattito etico-politico il discorso sui mezzi e fini, concentrandosi soprattutto sul “metodo” per portare avanti la lotta: “fra mezzi e fini vi è la stessa relazione che esiste fra seme e albero”. E’ nel 1929 che Capitini rompe con la Chiesa cattolica proprio per l’alleanza lateranense tra croce e moschetto e per la mancata opposizione cattolica al fascismo: «Se avesse voluto [la Chiesa] avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione, il fascismo in una settimana», fu invece «ancora una volta alleata dei tiranni». Captini fa dunque la sua prima obiezione di coscienza e dice No alla Chiesa, ne esce e si pone come “libero religioso”.
Tra il 1931 ed il 1943 diventa quindi un punto di riferimento importante per molti giovani. Imposta un’opera religiosa nel significato proprio della parola, cioè nel senso che in tempi di grande disorientamento egli seppe collegare e unire persone, giovani, intellettuali, operai, gente del popolo, dando loro una speranza. Rovesciando l’antico detto latino “si vis pacem, para bellum” Capitini imposta il suo lavoro culturale sull’ipotesi “se vuoi la pace, prepara la pace”.
Nel 1932 avviene la seconda rottura, quella anche formale con il regime. Allora era il segretario della Scuola Normale di Pisa. Rifiuta la tessera del Partito Nazionale Fascista, necessaria per mantenere il posto di lavoro. Capitini fa la sua seconda obiezione di coscienza, dice No al fascismo, si pone in antitesi e rimane isolato sul piano politico.
In una lettera ai familiari scritta il 2 gennaio 1933 mostra la consapevolezza del gesto compiuto; alla madre dice: “Faccio quello che è giusto e non temo nulla”. E al fratello: “Essendo io dunque contrario alla violenza, non posso dirmi fascista e compiere l’ipocrisia di iscrivermi o la viltà di cedere”. Nella lettera ufficiale di dimissioni dal suo impiego, il 4 gennaio 1933, scrive: “Ho preso in esame per molto tempo dal punto di vista religioso il problema della violenza e l’insegnamento ad aver fiducia in essa, e mi è sembrato che quell’insegnamento sia un errore e riveli mancanza di profonda fede nello spirito”.
Capitini vuole anche interiorizzare la sua profonda scelta antifascista, non solo politica, ma anche etica, intima, e compie una terza personale obiezione di coscienza: rompe con le abitudini sociali, esce dal conformismo, diventa vegetariano, dice No alla violenza verso gli animali. E’ lui stesso che spiega così questa scelta: “Divenni vegetariano, perché vedevo che Mussolini portava gl’italiani alla guerra, e pensai che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell’uccidere gli uomini”.
A questo punto è pronto per elaborare ed esplicitare la sua posizione di antifascismo nonviolento, facendone un centro di opposione attiva.
Elenca così i suoi rifiuti (ancor oggi attualissimi), i suoi 12 No:
1. al nazionalismo;
2. all’imperialismo;
3. al centralismo assolutistico e burocratico;
4. al totalitarismo;
5. al prepotere poliziesco;
6. all’esaltazione della violenza;
7. al finto rivoluzionarismo attivista;
8. all’alleanza con il conservatorismo della chiesa;
9. al corporativismo;
10. al rilievo forzato e malsano di un solo tipo di cultura e di educazione;
11. all’ostentazione delle poche cose fatte, dilapilando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno;
12. all’onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianameute la grossolanità, la mutevolezza, l’egotismo, l’iniziativa brigantesca, la leggerezza nell’affrontare cose serie, gli errori e la irragionevolezza impersuadibile, mentre ero convinto che il governo di un paese deve il piú possibile lasciare operare le altre forze e trarne consigli e collaborazione, ed essere anonimo, grigio anche, perché lo splendore stia nei valori puri della libertà, della giustizia, dell’onestà, della produzione culturale e religiosa, non nelle persone, che in uniforme o no, nel governo o a capo dello Stato, sono semplicemente al servizio di quei valori.
La non-collaborazione con i mali del fascismo si doveva quindi trasformare in programma costruttivo e in un cambiamento (politico e intimo) che doveva avvenire subito, senza rinvio a tempi migliori.
“Perciò il fascismo, nel problema dell’Italia di educarsi a popolo onesto, libero, competente, corretto, collaborante, mi parve un potenziamento del peggio e del fondo della nostra storia infelice, una malattia latente nell’organismo e venuta fuori, l’ostacolo che doveva, per il bene comune, essere rimosso, non in un modo semplicemente materiale, ma prendendo precisa e attiva coscienza delle ragioni per cui era sbagliato, e trasformando in questo lavoro sé e persuadendo gli altri italiani”.
Nel dopoguerra non aderisce ad alcun partito, e così Capitini, che fu tra i primissimi ed i pochissimi a rifiutare da subito il fascismo e che tanto fece e patì durante il regime di Mussolini, venne lascito fuori dalla Costituente. Da solo inizia un lungo lavoro per l’affermazione del metodo della nonviolenza. Fino alla morte è attivissimo: fonda i Centri di Orientamento Sociale, il Movimento di Religione, il Centro di coordinamento internazionale per la Nonviolenza, la Società Vegetariana Italiana, l’Associazione per la difesa e lo sviluppo della Scuola pubblica, la Consulta Italiana per la Pace, il Movimento Nonviolento. Scrive e pubblica moltissimo: La realtà di tutti, Nuova socialità e riforma religiosa, L’atto di educare, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Religione aperta, Colloquio corale, Rivoluzione aperta, L’obiezione di coscienza in Italia, Battezzati non credenti, L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale, La compresenza dei morti e dei viventi, Educazione aperta, Le tecniche della nonviolenza. Fonda e dirige anche due riviste: Il potere di tutti e Azione nonviolenta. Nell’elaborazione del suo pensiero e del suo agire politico mantiene sempre la centralità dell’opzione antifascista nonviolenta.
Il mondo laico e quello religioso guardano oggi alla nonviolenza riconoscendo che non si può più prescindere da un confronto con essa. Questo è certamente un bene, anzi, è l’unico motivo che ci fa guardare avanti con qualche speranza, l’unica luce nel buio che ci circonda.
I movimenti nonviolenti non pretendono di esaurire in se stessi la proposta della nonviolenza che, come diceva Gandhi, è “antica come le montagne”, ma la via italiana alla nonviolenza non può che passare da questa storia e dalle strade percorse da Aldo Capitini.
Ancor oggi l’antifascismo deve essere nonviolento, o non è antifascismo.

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