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Archivi Mensili: settembre 2021

Lanza del Vasto, inviato da Gandhi a convertire l’Occidente

29 mercoledì Set 2021

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Gandhi, India, Lanza del Vasto, Mahatma, San Vito dei Normanni, Shantidas

Le foto d’epoca ci mostrano il volto dai lineamenti eleganti, lo sguardo profondo, la barba da profeta dell’Antico Testamento. Era un bell’uomo Giovani Giuseppe Lanza del Vasto, appoggiato al bastone patriarcale, con la tunica tessuta all’arcolaio della sua Comunità dell’Arca. Lanza del Vasto fondò in Occidente delle comunità gandhiane ispirate ai principi dell’autosufficienza, indipendenza e povertà. Egli volle, con il suo insegnamento spingere “alla ricerca della presenza interiore” e all’attuazione dell’ideale della nonviolenza come criterio ispiratore di vita comunitaria e come luogo liberato dai mali della modernità. Sebbene sia nato e abbia trascorso gli anni della sua infanzia a San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, Lanza del Vasto, che la Francia celebra come filosofo, profeta, riformatore e saggio “degno di occupare un posto a parte nel rinnovamento spirituale della nostra epoca” in Italia è pressoché sconosciuto.

Eppure, Lanza del Vasto è uno degli italiani profeti della nonviolenza, insieme a Francesco d’Assisi, Aldo Capitini, Danilo Dolci, don Lorenzo Milani, Alexander Langer. Abbiamo regalato al mondo delle perle preziose, e non lo sappiamo.

Giovanni Giuseppe Lanza del Vasto nasce nel 1901 a San Vito dei Normanni, da una famiglia nobile e agiata. Ancora fanciullo si trasferisce con tutta la famiglia a Parigi dove frequenta il liceo e consegue, nel 1920, il diploma di Baccelliere che lo abilita all’insegnamento del latino, del greco e della filosofia negli istituti secondari superiori. Non avendo bisogno di lavorare potè dedicarsi, oltre che agli studi filosofici (si laureò alla normale di Pisa con una tesi intitolata “ Trinità Spirituale”), anche alla musica, alla pittura, ai viaggi, alla poesia e al cesello.

Frequenta gli ambienti della Parigi bene e per un anno si dà alla vita di società in Germania. A diciannove anni torna in Italia per gli studi universitari. Leggendo San Tommaso, si converte alla fede dei padri che lo conduce ad una forte ricerca di senso per la difficoltà ad inserirsi nella società “ordinaria”. La mondanità dei salotti fiorentini, allo stesso modo di quella dei salotti parigini, non lo soddisfa. Sente di essere lontano dal mondo e contemporaneamente non capisce quale sia il suo. Pena di fare il poeta o l’attore cinematografico. Poi, inquieto, decide di intraprendere un viaggio iniziatico a piedi attraverso il sud dell’Italia. L’esperienzo lo spinge apercorrere i sentieri dell’India. Parte quando ha 35 anni per rispondere alle inquietudini del suo animo, bisognoso di evadere da un sistema di cui riconosceva le brutture e la pochezza spirituale, e desideroso di comprendere come attuare la propria religiosità. Il Mahatma Gandhi ha già fatto la sua Marcia del Sale contro il colonialismo inglese, ed è conosciuto a livello mondiale per aver scelto la nonviolenza come lotta di liberazione. Lanza lo vuole incontrare. Gandhi lo accoglie nel suo ashram, il villaggio comunitario, e gli chiede di tralasciare ogni lavoro intellettuale e dedicarsi all’attività manuale. Lanza in quei mesi conosce la vita delle Comunità fondate da gandhi in cui gli uomini vivono secondo i principi di sarvodaya (benessere di tutti), satyagraha (forza della verità), ahimsa (nonviolenza), swaraj (autolimitazione), swadeshi (autosufficienza, dipendenza da sé), aparigraha (povertà volontaria).

Finalmente il giovane pellegrino si sente a casa. In Gandhi, infatti, Lanza trova quella unità di vita, quella coerenza del fare rispetto al pensiero, che illumina in lui il modo di condurre il proprio vivere per dar corpo alla verità. Il Mahatma dà a Lanza un nuovo nome, che è anche un programma di vita: Shantidas (servitore della pace). Dopo tre mesi di permanenza nell’Ashram Lanza esprime il proposito di fare un pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, un percorso iniziatico per arrivare alle sorgenti dell’io e ritrovare se stesso e una nuova concezione della vita e del mondo.

Lanza si sente chiamato a tornare in Occidente per seminarvi la dottrina di Gandhi attraverso la fondazione di una confraternita votata alla nonviolenza di vita, tra spiritualità e azione.

Ma ancora non si sente pronto a realizzare il suo progetto. Intraprende un nuovo pellegrinaggio a piedi in Terra Santa, per un anno.

Torna in Europa, già aggredita dal morbo nazista, quando i rumori delle devastante guerra si fanno già sentire. Sente l’urgenza del suo progetto di fondare un ordine che professasse e praticasse la nonviolenza, confidandolo a Simone Weil, che lo incoraggia ad andare avanti.

Finalmente, dopo vari tentativi la Comunità prende corpo a la Borie Noble, nel sud della Francia, regione Midi-Pyrenees, con circa centocinquanta persone, a cui dà il nome di Arca: “noi ci chiameremo l’Arca, quella di Noè beninteso. E noi gli animali dell’Arca”. È il 1944.

L’Arca è un ordine patriarcale, ecumenico, nonviolento, composto da famiglie e singoli, che provvede al proprio sostentamento con il lavoro manuale di tutti i membri. L’Arca deve attraversare il mare in tempesta delle armi nucleari e della crisi ecologica, per portare l’umanità alla salvezza.

Alla notizia dell’assassinio di Gandhi, nel 1948, torna in India dove incontra Vinoba Bhave, l’erede spirituale del Mahatma e lo segue nelle sue marce percorse a piedi in gran parte del subcontinente indiano per la campagna Bhoodan, cioè reclamare dai possidenti latifondisti il dono della terra per chi non ne aveva, una riforma agraria nonviolenta.

Dagli anni ‘50 fino alla morte sopraggiunta nel 1981, Lanza del Vasto è stato protagonista di numerose e clamorose azioni nonviolente

Guerra in Algeria

Una delle prime battaglie di lotta nonviolenta condotte da Lanza fu quella contro le torture che i parà francesi infliggevano ai prigionieri algerini, e sulle quali le autorità stendevano un velo di complice omertà.

Campi di internamento

L’azione sui fatti della guerra continuò con le manifestazioni contro i cosiddetti “campi di assegnazione a residenza sorvegliata”, in verità veri e propri campi di concentramento, in cui venivano rinchiusi gli algerini considerati sospetti.

Corsa agli armamenti

Un’altra azione molto significativa fu quella condotta contro la centrale nucleare di Marcoule in cui si stava realizzando la bomba atomica.

Larzac.

È una regione contadina dei Pirenei dove il Ministero della Difesa decise di ingrandire un campo militare di Larzac portandolo a 7.000 ettari tolti al pascolo. Shantidas cominciò un digiuno, che sarebbe durato due settimane e al quale ogni giorno parteciparono a turno i contadini. La lotta durò un decennio. Vi furono manifestazioni clamorose come la marcia con le pecore che arrivò sotto la Torre Eiffel, e quella con i trattori che arrivò fino ad Orleans. Alla fine vinsero e il poligono militare anziché allargarsi, si restrinse.

Concilio Vaticano II

Lanza ebbe un ruolo attivo, a sostegno degli obiettori di coscienza attua un digiuno della durata di quaranta giorni. Al termine gli viene consegnata in anteprima l’Enciclica Pacem in Terris di Papa Giovanni XXIII, dicendogli che vi erano pagine che avrebbe potuto scrivere lui.

Bibliografia minima:

Giuda. Pellegrinaggio alle sorgenti. L’Arca aveva una vigna per vela. Introduzione alla vita interiore. Vinoba o il nuovo pellegrinaggio. Che cos’è la nonviolenza.

I libri in italiano di Lanza del Vasto sono editi da Jaca Book.

24 settembre 1961, 60 anni dopo Aldo Capitini

24 venerdì Set 2021

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Assisi, Capitini, Marcia, Movimento Nonviolento, pace, Pacifismo, Perugia

I 60 anni della prima Marcia storica di Aldo Capitini, da Perugia ad Assisi, vanno celebrati per conservare e trasmettere la memoria, e perché quella Marcia rappresentò una grande novità, fu a suo modo rivoluzionaria, uno spartiacque con un prima e un dopo (prima il pacifismo di partito, dopo il pacifismo nonviolento); quella Marcia diede anche un frutto fortemente voluto da Capitini stesso: la nascita del Movimento Nonviolento.

Una Marcia così non c’era mai stata in Italia. Processioni religiose sì, se ne vedevano tante, e anche cortei di partito, in tutte le regioni. Ma chiamare a raccolta gente di popolo, per camminare nelle campagne umbre con un obiettivo politico (lanciare l’idea del metodo nonviolento di lotta), era proprio una novità. Ci voleva uno come Aldo Capitini, pacifista nonviolento, libero religioso, per convocare la Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli del 24 settembre 1961.

In un momento internazionale difficile (costruzione del Muro di Berlino, avvio della crisi cubana, contrapposizione tra Patto di Varsavia e Nato con la minaccia di conflitto atomico) Capitini volle unire i filoni storici, laici e religiosi, del pacifismo socialista, comunista, cattolico, radicale, nel comune desiderio di pace per il mondo.

Il senso profondo di quella originale iniziativa fu espresso dallo stesso Capitini; bisognava che la Marcia: – partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; – dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; – fosse l’occasione per la presentazione e il “lancio” dell’idea del metodo nonviolento (da qui il richiamo alle due figure della nonviolenza, Francesco e Gandhi).

La Marcia, dapprima avversata dai partiti, fu un successo “dal basso”. Superò il vecchio pacifismo generico, che vacillò davanti alla prima e alla seconda guerra mondiale, e introdusse in Italia la nonviolenza come programma politico.

Per questo, anche se molti gli chiesero di ripetere l’iniziativa annualmente, Capitini rifiutò per evitare il rischio che la Marcia, e lo stesso ideale di Pace, divenissero ritualità e stanca ricorrenza.

Quando, qualche tempo dopo, disse “C’è stato chi ha detto che la Marcia Perugia-Assisi era così bella che è irripetibile. Ma come non correre il rischio di farne di meno belle se esse devono adempiere ad un compito così importante?” si riferiva alle Marce specifiche “contro la guerra” che lui stesso organizzò in alcune città (Roma, Bologna) e in molti centri della Toscana e dell’Umbria. Erano le iniziative locali messe in campo dalla Consulta italiana per la pace, guidata dallo stesso Capitini, che riuniva e collegava le principali associazioni pacifiste di allora, così come oggi fa la Rete italiana Pace e Disarmo. Fu in quell’occasione che Capitini scrisse “Una marcia non è fine a se stessa, produce onde che vanno lontano”, e in qualche modo quelle onde sono arrivate fino a noi.

Oggi marce e manifestazioni non sono più una novità. Hanno senso solo se legate ad un obiettivo preciso, ad una campagna in atto, a mobilitazioni specifiche. Celebrazioni rituali, retoriche, autoreferenziali, ripetitive, andrebbero fuori dal tracciato della nonviolenza attiva, innovativa, trasformativa, che ci è stata tramandata proprio dal pensiero capitiniano.

“Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari, non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Sono convinto che oggi il settore R&S, ricerca e sviluppo della nonviolenza, debba fare grandi passi in avanti e non debba fermarsi alle ormai tradizionali risorse”. Sono parole di Alexander Langer, che scrisse per un congresso del Movimento Nonviolento, nelle quali ci riconosciamo pienamente e di cui vogliamo fare tesoro.

Per questo a noi sembra che il modo migliore per ricordare la Marcia del 1961, e ringraziare Aldo Capitini, sia quello di proseguire e rafforzare le Campagne nelle quali siamo impegnati, per la riduzione delle spese militari, per gli interventi civili di pace nei conflitti in corso, per la messa al bando delle armi nucleari, per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.

Afghanistan, ora ci vuole la nonviolenza

01 mercoledì Set 2021

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Afghanistan, Badshah Khan, Gandhi, guerra, pace

La prima vittima della guerra è la verità.

In Afghanistan quello che è accaduto negli ultimi 20 anni, dal 2001 al 2021, si è retto sulla menzogna, una montagna di bugie sostenute e diffuse dai militari combattenti delle varie fazioni, dai politici responsabili delle scelte fatte, dall’informazione al soldo degli interessi in campo. Poi ci sono le vittime in carne ed ossa, bambini, donne, uomini, morti o feriti sotto le bombe, negli attentati, negli scontri, o cercando di fuggire da un futuro di paura.

La guerra cambia il significato delle parole: gli invasori diventano liberatori, i terroristi diventano patrioti, i morti degli altri diventano effetti collaterali.

L’attacco terroristico dell’11 settembre a New York (il primo della storia in diretta televisiva) non poteva rimanere senza risposta, ma quella dell’invasione dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Kabul, è stata la più sbagliata: ha innescato reazioni a catena con variabili indipendenti e fuori controllo, che in vent’anni hanno determinato una situazione insostenibile. La fuga precipitosa degli eserciti stranieri lascia il campo in mano proprio a chi doveva essere battuto. E quel che è peggio, gli lascia in eredità un ingente arsenale di armi che dovevano “esportare la democrazia” e ora saranno al servizio del nuovo Emirato islamico: cambia ideologia, ma la violenza è la stessa. Un’intera generazione è cresciuta conoscendo solo la guerra come condizione di vita e di morte.

I risultati di quella guerra sono la diminuzione delle aspettative di vita degli afghani, la crescita della mortalità infantile, l’aumento della povertà e il calo dell’alfabetizzazione. Solo i produttori di sistemi militari si sono arricchiti a dismisura (con un rendimento addirittura dell’872% ci dicono gli analisti della Rete Pace e Disarmo, di Opal, di Milex, gli unici che forniscono i dati reali di questa guerra che all’Italia è costata 8,7 miliardi di euro).

Ora vige il caos ed è facile prevedere che si aprirà la stagione della guerra civile tra le diverse etnie sostenute da altre potenze esterne. Il bottino Afghanistan è troppo ghiotto, ricco com’è di materie prime (tra l’altro produttore dell’80% di oppio a livello mondiale), e la cui importanza strategica geopolitica è determinata dal suo ruolo di crocevia asiatico. Qualsiasi tentativo di semplificazione della storia e dell’attualità afghana porterebbe ad errori di valutazione, ma è fuori di dubbio che oggi le influenze maggiori sul suo futuro si giocano tra Pakistan, Cina, Russia, Turchia, Iran, ma anche sul ruolo che i giovani afghani vorranno prendere nelle proprie mani. In questi giorni i riflettori sono puntati sull’aeroporto internazionale di Kabul, ma la stragrande maggioranza delle persone, donne, uomini e ragazzi dell’Afghanistan di domani, sono nelle province, nelle periferie, nelle montagne e sugli altipiani di quella sterminata regione, dove i “corridoi umanitari” non arriveranno mai e dove si determineranno i destini di quelle persone. Le poche reali informazioni che abbiamo vengono dalle Organizzazioni non governative, anche italiane, o dalle Agenzie internazionali che sono e restano davvero presenti sul territorio nonostante i disastri combinati dall’operazione militare Usa-Nato. Sono le sole voci, insieme a quelle delle associazioni della società civile afghana, oggi ascoltabili e che possono parlare con dignità. Irricevibili e vergognose, invece, le parole ipocrite di politici e partiti che avevano sostenuto le ragioni dell’intervento armato, votato i finanziamenti della missione militare, e di giornalisti ed “esperti” che hanno giustificato la “guerra giusta” contro il terrorismo internazionale e per “liberare le donne” dal burka, ed ora ci spiegano, con la stessa faccia tosta, la necessità dell’aiuto umanitario, affidato a quelle stesse forze armate artefici del clamoroso fallimento militare. Ma davvero non si vergognano?

Davanti a questo sfacelo, ampiamente previsto da chi si è opposto a questa guerra infinita, come a tutte le guerre, ci sono solo tre cosa da fare:

– moltiplicare l’impegno nonviolento contro la preparazione della prossima guerra (contro l’industria bellica, contro i bilanci militari, contro le banche armate, per la smilitarizzazione e l’istituzione della difesa civile non armata e nonviolenta);

– offrire aiuto alle vittime della guerra, ai profughi che fuggono dalla violenza;

– sostenere l’islam nonviolento contro il fondamentalismo talebano, sull’esempio di Abdul Ghaffar, detto Badshah Khan(il Gandhi musulmano), che operò in Pakistan e Afghanistan, fondando il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente.

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