Cara lettrice, caro lettore,
mi hanno detto che devo scrivere dei cenni autobiografici. Già tre volte ho iniziato e poi ho cancellato tutto. Uno degli aspetti prevalenti del mio carattere è la riservatezza. Per di più penso che agli altri possa interessare poco di me. Inoltre non credo di aver fatto cose così speciali da meritare di essere raccontate.
Così mi è venuta un’idea: faccio qualche confidenza personale, come si usa tra vecchi amici.
Incontri. Il primo incontro significativo non ha mai potuto realizzarsi. E’ quello con mio nonno materno, Gracco Spaziani, morto a Mauthausen nel febbraio del 1945. Io sono nato dieci anni dopo, ma fin da piccolo mia madre me l’ha fatto amare e immaginare, raccontandomi di quanto era buono e amante della libertà. Avvocato, socialista, antimilitarista, è stato imprigionato molte volte per non aver mai nascosto la sua avversità al regime fascista. L’ultima volta venne arrestato nel novembre del 1944, di notte, in casa, dalle brigate nere: torturato e poi deportato a Bolzano e infine nel lager. Finì i suoi giorni terreni nella camera a gas. Un bel libro che ne ripercorre la storia è quello di mia zia Ortensia Spaziani (“Mio padre, mia madre e i fascisti” Casa Editrice Mazziana); un breve ricordo l’ho scritto anch’io e si trova in “Periferie della memoria” (Edizioni del Movimento Nonviolento). La figura di questo nonno, martire per la libertà, e il pensiero che mia mamma a soli 22 anni è rimasta orfana per la coerenza ideale di suo padre, mi ha sempre colpito. Come mi colpì moltissimo, da giovane adolescente, scoprire che in una delle tante perquisizioni subite in casa, i fascisti sequestrarono una volta un libro del nonno ritenuto “sovversivo”: era il testo “Come ruinare l’autorità” di Lev Tolstoj. Appena ho potuto, forse tredicenne, sono andato nella Biblioteca Comunale di Verona a cercare questo libretto. Ho trovato un vecchio esemplare (Edizioni “L’Avanti”) e l’ho trascritto (le fotocopie ancora non si usavano). Quel testo (una straordinaria illustrazione della disobbedienza civile) divenne poi il primo “ciclostilato in proprio” diffuso dal Gruppo Nonviolento di Verona nel 1974.
Altro incontro determinante, naturalmente, è stato quello con mamma Nelda e papà Italo. Oltre ad una buona educazione, culturale, civica e religiosa, ai buoni sentimenti, ci hanno (mi riferisco anche alle mie due sorelle maggiori, Tiziana e Silvana, cui sono legatissimo e che ringrazio perché mi hanno aperto la strada) sempre abituati ad interessarci alle cose del mondo, a fare opere di carità, a seguire e partecipare alla cosa pubblica, ad avere la passione politica e un gran senso della libertà. La nostra casa è sempre stata aperta. Il loro esempio (seppur molto diverso l’uno dall’altra) ancor oggi mi commuove. La mamma era sempre in prima fila ogni qual volta c’era da difendere una causa dei più deboli. Ricordando tutte le umiliazioni patite con il fascismo, quando ci fu il colpo di stato di Pinochet in Cile, aprì subito le porte e ospitò a casa per mesi un’esule (cedendole la mia camera…). Ancora bambino mi portò in pellegrinaggio a Mauthausen. E fu orgogliosa quando capì che mi stavo avviando sulla strada dell’obiezione di coscienza. E’ morta troppo presto…
Il papà, che se ne è andato da poco, l’ho ricordato agli amici con alcune righe che fra l’altro dicono:
“…Noi ci credevamo rivoluzionari, e lui era stato giovanissimo partigiano.
Noi ci credevamo naturisti, e lui da trent’anni si faceva lo yogurt in casa.
Noi ci credevamo alternativi, e lui ci trasmetteva il senso dello Stato.
Noi ci credevamo intellettuali, e lui ripassava la Divina Commedia.
Noi ci credevamo obiettori, e lui viveva quei valori negli Alpini.
Noi ci credevamo ecologisti, e lui andava solo a piedi.
Diceva di essere all’antica, ma ha accettato di aprire le porte alle persone più strane e diverse che abbiamo portato in casa : bonzi, esuli, clandestini. Un bel modo di insegnarci l’accoglienza e la tolleranza….”.
Un’altra esperienza formativa importante per me è stato lo scoutismo. L’amore per la natura e gli animali, diventato poi ecologismo, l’ho imparato lì. Così anche il senso del gruppo e dell’impegno.
C’è stato anche un incontro giovanile di cui solo anni dopo anni capii l’importanza. E’ stato quello con Enzo Melegari, primo obiettore di coscienza cattolico veronese, scomparso prematuramente qualche mese fa. Enzo era più grande di me. Abitavamo vicini, ed era un compagno di giochi delle mie sorelle. Un giorno (io avrò avuto circa 15 anni) venni a sapere che Enzo era stato incarcerato perché aveva rifiutato di fare il militare in coerenza con il suo essere cristiano. Questo fatto mi colpì moltissimo. Fu così che arrivò in casa, portata da una delle mie sorelle, una copia di un giornalino che si chiamava Azione nonviolenta. Lo lessi tutto d’un fiato.
Poi c’è stata la parrocchia. Un incontro particolare è stato quello con Don Giuseppe, il curato degli adolescenti. Erano i primi anni ’70 e negli incontri di catechismo ci parlava di un certo Don Lorenzo Milani. Leggemmo insieme la “Lettera ad un professoressa”. Quando ci fu il golpe cileno, facemmo insieme un volantino di denuncia che distribuimmo la domenica all’uscita dalle messe. Fu uno scandalo. Tanti fedeli non gradirono e andarono a lamentarsi dal Vescovo. Poco dopo don Giuseppe venne allontanato. Finì in una sperduta parrocchia di campagna, ma alcuni di noi continuarono a frequentarlo e con lui diventammo una piccola comunità di base. Si leggevano i Vangeli e si discuteva molto di nonviolenza. In quel periodo mi conquistò la lettura di “Antiche come le montagne” (Edizioni Comunità) di Gandhi e de “Il Vangelo della nonviolenza” di Jean Marie Muller (Editrice Lanterna).
Avevo trovato da qualche parte un bel libretto “La coscienza dice no”, Edizioni Gribaudi, nel quale mi aveva particolarmente colpito uno scritto di Pietro Pinna. In me ormai era maturata l’idea di fare obiezione di coscienza. Era l’inizio del 1972 ed ancora non c’era il riconoscimento giuridico. Avevo 17 anni e decisi che alla chiamata militare dei 18 avrei detto “no” anche affrontando il carcere. Un testo che mi confermò nella decisione fu “Signornò” (Edizioni Guaraldi) di Franco Gesualdi.
Fu così che presi i primi contatti con il Movimento Nonviolento, scrivendo che mi sarebbe piaciuto farne parte. Mi rispose proprio il Pinna (conservo ancora gelosamente quella sua bellissima lettera) consigliandomi prima di leggere insieme con alcuni amici l’opuscolo di Aldo Capitini “Teoria della Nonviolenza” (Quaderni di Azione nonviolenta n. 6) e di commentarlo insieme.
Così facemmo. Successivamente invitammo il Pinna ad un incontro del gruppo. Venne e l’incontro si tenne a casa mia. Da lì il gruppo si formalizzò ed iniziammo anche a fare qualche attività pubblica. Era il 1974. Con Pietro Pinna è nata una grande amicizia, che prosegue ancora oggi. Dietro una dura scorza si nasconde una persona straordinaria. E’ uno dei miei maestri di vita. Fra le tante cose che mi ha insegnato, c’è la cura dei dettagli e il pretendere sempre prima da se stessi quello che si vorrebbe facessero gli altri. Ancora non mi capacito della fiducia che Pietro ha avuto in me, affidandomi la direzione di Azione nonviolenta (a lui cara “come una creatura”) e tutta l’eredità del centro di Perugia.
Nel frattempo la Legge 772 era stata approvata e venne il mio momento di scegliere per il servizio civile. Dopo un Corso di formazione autogestito al Don Calabria di Verona, con il mio inseparabile amico Sergio Salzano svolsi il servizio di 20 mesi (più quattro come volontari) al Centro Mazziano. Furono anni per me straordinari. Mi impegnai anima e corpo nel servizio e nell’attività del Movimento Nonviolento. Organizzammo i primi convegni nazionali del movimento antinucleare (1977) e sulla difesa popolare nonviolenta (1978). Feci anche moltissimi viaggi. Si faceva spesso l’autostop. Andai a Montalto di Castro per le manifestazioni contro la centrale nucleare, a Comiso contro i missili, a Bruxelles dove allora c’era la sede della War Reisters’ International, a Parigi, Londra, Strasburgo per incontri sull’obiezione in Europa; e tanti incontri del Movimento in ogni parte d’Italia. Iniziarono anche a chiamarmi per qualche conferenza. All’inizio dovetti davvero fare violenza su me stesso per parlare in pubblico, ma poi ci si fa l’abitudine.
Sempre insieme a Sergio mi iscrissi alla Scuola Superiore di Servizio Sociale, e mi diplomai con una testi su “La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale”.
Fu in quegli anni che feci incontri fondamentali di persone straordinarie. Fra i tanti possibili, cito solo quelli con i quali è nata anche un’amicizia personale e che mi hanno insegnato qualcosa di cui faccio tesoro non solo nell’attività pubblica, ma anche nella vita privata: Alfredo Mori, Angela e Beppe Marasso, Giannozzo Pucci, Piercarlo Racca, Davide Melodia, Tonino Drago, Alberto e Annaluisa L’Abate, il monaco Morishita, Francuccio Gesualdi, Alex Zanotelli, Suor Irene Bersani, Don Domenico Romani, Michele Boato, Matteo Soccio, Daniele Lugli, Edi Rabini, Emilio Butturini, Tani Latmiral, Donata De Andreis, Giuliana Martirani, Hedy Vaccaro, Renato Fiorelli, Alberto Trevisan, Sandro Canestrini, Gianni Tamino, Giuliano Pontara, Nanni Salio, Christoph Baker, e chiedo scusa a coloro che ho dimenticato di nominare.
Un capitoletto a parte lo voglio riservare ad Alexander Langer. L’ho incontrato la prima volta per fargli un’intervista per Azione nonviolenta sulla sua esperienza di lista interetnica. Ho capito subito che avevo a che fare con una persona speciale. Non solo per l’acume politico e la capacità espositiva, ma per quel “di più” di empatia che ci metteva. Ci incontrammo in varie altre occasioni, legate alla nascita delle Liste Verdi attorno al 1985 (con l’esperienza verde sono stato Consigliere comunale a Verona dall’’85 all’87 e poi Consigliere regionale del Veneto dall’87 al ’95 e poi ancora consigliere comunale dal ’98 al 2002). Ma il legame forte tra noi nacque nel 1989 quando mi propose di accompagnarlo in Amazzonia ad un convegno organizzato dai missionari sui problemi ambientali e sociali di quella regione. Questo invito mi stupì molto ma accettai, incuriosito. Fu un’esperienza straordinaria. Da lì iniziò per me l’avventura della Campagna Nord Sud e l’amicizia intima (un dono davvero speciale) con Alex. Molte cose restano nel mio cuore, ma se devo dire un insegnamento politico che mi ha lasciato, è sintetizzabile in questa sua frase: “per fare una seria attività di movimento sono essenziali due cose: un buon archivio e un buon indirizzario”. E’ un consiglio prezioso che non dimentico mai. Considero Alex come colui che è riuscito ad entrare ed uscire dalle istituzioni restando integro. Ho visto nel suo modo di fare politica l’incarnamento del pensiero capitiniano. Consiglio a tutti la lettura del libro “Il viaggiatore leggero” (Edizioni Sellerio).
Ci sarebbero tante altre cose da raccontare, ma voglio limitarmi a tre esperienze formative.
Una prima vera e propria “scuola politica” per me sono state le Marce Antimilitariste, quelle da Trieste ad Aviano degli anni ’70, che si concludevano poi a Peschiera del Garda davanti al carcere militare. Ho avuto la fortuna di parteciparvi stando vicino a Pietro Pinna, e ti devo dire che più di ogni altra cosa mi hanno fatto capire che cos’è e come si conduce un’azione diretta nonviolenta. Ne ho fatto tesoro in particolare nel gennaio del 1991 quando con altri ho organizzato il blocco ferroviario di un treno che passava da Verona e trasportava armi dirette in Iraq. Fu un’azione organizzata nei minimi dettagli, esemplare per il suo svolgimento: fummo processati e poi assolti.
Una seconda scuola per me sono stati i 22 processi per l’obiezione fiscale alle spese militari che abbiamo subìto ed affrontato con una squadra eccezionale di avvocati, che voglio qui ricordare per la qualità del loro lavoro, l’abnegazione dimostrata e l’amicizia concessami: Sandro Canestrini, Giuseppe Ramadori, Maurizio Corticelli, Nicola Chirco. Dopo un lunghissimo iter fu sancito che propagandare il rifiuto del pagamento delle tasse destinate alle armi non è reato. In quelle aule di Tribunale, da Sondrio a Ragusa, si sono scritte pagine memorabili, si è fatta giurisprudenza, si è dato corpo alla Costituzione Repubbliana, ed ho imparato cos’è l’amore per la Legge.
La terza scuola è stata (e continua ad essere) la Casa per la Nonviolenza. La prima volta che andai a Perugia, nella sede del Movimento Nonviolento, che era stata la casa di Capitini, rimasi affascinato. In sé non era gran cosa, ma c’era quel senso di autorevolezza, di nobiltà, di sacro, di saggezza, che traspare da certe case piene di storia oppure da certi oggetti appartenuti a generazioni passate. Così, quella prima volta, pensai che mi sarebbe piaciuto far nascere a Verona qualcosa di simile. Iniziammo nel 1974 prendendo in affitto (autotassandoci mensilmente) un vecchio umidissimo seminterrato (la gloriosa sede di via Filippini 25/a dove anche tu mandavi per posta i tuoi comunicati, che conservo ancora ben ordinati) e poi nel 1987 la decisione, con il Movimento Nonviolento nazionale, di lanciare la campagna “un mattone per la pace” e acquistare una casa per farne un “centro” permanente per la nonviolenza, così come intuì e volle fare Capitini. Gestire, organizzare, avere a cuore, prendersi cura quotidianamente della Casa per la Nonviolenza e farlo con spirito di servizio, è una vera scuola. L’archivio, la biblioteca, l’emeroteca sono oggi un grande patrimonio collettivo. Se dovessi fare un bilancio dei miei 50 e passa anni di vita, direi che la Casa per la Nonviolenza è una delle cose migliori che ho fatto. Un rammarico, invece, ce l’ho sul piano lavorativo: sono impiegato part-time nella ASL di Verona, ormai senza entusiasmo. Le energie che ho le dedico all’impegno come amico della nonviolenza.
Ci sono tante altre cose che forse andrebbero dette, ma appartengono ad una sfera molto personale, e forse hanno valore solo per me. Ma lasciamene citare solo una, che forse ti farrà sorridere: la passione per la musica dei Beatles e di John Lennon in particolare (le sue canzoni e la sua vicenda hanno avuto per me grande importanza).
Non dirò nulla di Marta, mia figlia e la sua amatissima cagnolina Onda, senza le quali le giornate sarebbero vuote.
Come si vede non ho grandi meriti, nella mia vita sono semplicemente stato molto fortunato. Devo tutto agli incontri che mi è stato concesso di avere. A coloro di cui ti ho parlato, e a molti altri di cui nulla ho detto, va la mia grande gratitudine.
Mao