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50 anni di Obiezione di coscienza

14 mercoledì Dic 2022

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Intervista Mao Valpiana sulla campagna antimilitarista e nonviolenta

1) Il prossimo 15 dicembre saranno 50 anni dall’approvazione della prima legge per l’odc al servizio militare. Nonostante i suoi molti limiti – dal “tribunale della coscienza” dei militari che doveva giudicare la genuinità delle motivazioni dell’obiettore, alla “punizione” della durata del servizio civile più lunga rispetto al militare – credo che si sia trattato di una legge molto importante per il movimento per la pace. Sei d’accordo? Perché?

Pochi giorni dopo l’approvazione della legge, Azione nonviolenta (dicembre 1972) titolava “Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza”, con il sottotitolo “Chi per grazia sovrana verrà ammesso a compiere il servizio civile alternativo, dovrà pagarla con una ferma maggiorata di 8 mesi, rimanendo in più sempre soggetto a tutti gli effetti, quale «soldato distaccato», alla giurisdizione militare”. Per rendere ancor meglio il giudizio fortemente critico e negativo sull’impianto della soluzione legislativa, mantenendo l’attenzione sul punto decisivo della questione antimilitarista posta dall’essenza stessa dell’obiezione di coscienza, Pietro Pinna (l’estensore dell’articolo, presentato come editoriale non firmato), faceva questo passaggio:

“Ecco quindi che, alla luce di questa logica, un Parlamento il quale doveva riconoscere il diritto, aperto a tutti, ad obiettare, ad atteggiarsi conformemente al ripudio di un modo politico retto su strutture di guerra, vota una legge che si traduce e serve al suo opposto, cioè a statuire il reato dell’obiezione di coscienza. Non c’è, ripetiamo, da farsi meraviglia di quest’esito, abnorme e logico insieme, da parte di un Parlamento composto di forze politiche che, dalla prima all’ultima, di destra e di sinistra, sono tutte concordi sul principio sommo (per il potere) della necessità dell’apparato di guerra”. In sostanza si dice che non viene riconosciuta l’istanza fondativa dell’obiezione, cioè la messa in discussione radicale della struttura dell’esercito, come strumento di guerra. Tuttavia, dopo le dichiarazioni di principio, si riconosce che la legge apre comunque uno spiraglio che dovrà essere utilizzato per ottenere altri risultati, passando dalla testimonianza degli obiettori in carcere, alle lotte per la costruzione e la gestione del servizio civile.

“Ma pure in termini pratici, di lotta, questa legge-truffa può dar adito ad un processo positivo (…) Ora che la legge c’è e non offre che una alternativa mistificata, moltissimi giovani dovranno confrontarcisi e sciogliere senza rinvii il nodo della scelta”.

E infatti, furono proprio il Movimento Nonviolento ed il Partito Radicale – protagonisti della lotta e del digiuno per ottenere la legge – a fondare e sostenere la Lega degli Obiettori di coscienza, che dal 1973 in poi gestì la nascita e la crescita del servizio civile come pratica di impegno per il movimento pacifista dentro la società.

2) Quali sono stati gli effetti di quella legge sulla società italiana?

Il servizio civile, così come si è sviluppato in Italia e come lo conosciamo ancora oggi, è stato una “invenzione” degli obiettori stessi. Lo stato aveva predisposto un servizio civile nazionale unico, che immaginava nel corpo (allora militarizzato) dei pompieri, o vigili del fuoco. Gli obiettori rifiutarono, non rispondendo alla chiamata, e contrapposero invece un servizio civile diversificato, da attuarsi negli Enti del privato sociale (assistenziali, culturali, ambientali, sindacali, ecc.) che si convenzionavano con il Ministero della Difesa per accogliere gli obiettori nelle loro sedi diffuse su tutto il territorio nazionale. Dopo le prime resistenze da parte dell’amministrazione militare, passò e si diffuse questo modello di servizio civile, che presto divenne uno dei più avanzati d’Europa.

L’obiettore di coscienza (fino al 1972 considerato un avanzo di galera) in pochi anni divenne una figura riconosciuta che lavorava nel territorio a fianco degli ultimi. Enti o Associazioni importanti, come la Comunità di Capodarco, l’Istituto don Calabria, l’Ospedale Psichiatrico di Basaglia, accolsero per primi gli obiettori, e “sdoganarono” questa figura dandone un’immagine positiva.

Già nei primi anni ‘80 l’obiettore di coscienza copriva un ruolo importante, e anche gli Enti pubblici, come i Comuni, iniziarono ad utilizzare questa risorsa, riconoscendo di fatto la positività non solo del servizio civile, ma anche dell’obiezione di coscienza stessa, come opzione culturale.

3) La fine della leva obbligatoria è stata una vittoria per il movimento? Oppure l’esercito dei professionisti ha provocato una serie di conseguenze negative – a cominciare dall’aumento delle spese per gli armamenti – di cui ancora oggi vediamo (e paghiamo) le conseguenze?

La leva obbligatoria è un’invenzione napoleonica, che rispondeva alla concezione “moderna” della guerra su larga scala. Dopo la prima guerra mondiale (sostanzialmente ancora una guerra di posizione, giocata sulla conquista territoriale, da trincea a trincea) e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale (giocata prevalentemente sui bombardamenti aerei e sulle armi strategiche), cambia nei fatti anche la concezione della guerra stessa, sempre più sofisticata, sempre più tecnica, sempre più professionale. La leva popolare quindi ha un suo naturale decadimento, che lascia il posto al professionismo militare. Diminuisce il numero dei soldati, ma cresce la spesa. La sospensione dell’obbligo (cioè della schiavitù militare) è per noi certamente un fatto positivo per le singole persone, anche se questo non cambia di una virgola il male della struttura militare di preparazione e attuazione della guerra, che per certi versi diventa ancor peggiore.

4) C’è una “terza via” fra esercito di leva e dei professionisti?

La nostra prospettiva resta quella del disarmo unilaterale; quindi per noi la via è quella dell’abolizione degli eserciti.

5) Con la “sospensione” della leva obbligatoria, non si parla più di odc, che invece, a mio avviso, resta un valore da rilanciare. E senza scomodare don Milani, basta vedere quello che sta succedendo oggi nella guerra in Ucraina, con migliaia di obiettori, di cui però i grandi mezzi di informazione preferiscono non dire nulla. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo con te. L’obiezione di coscienza resta un caposaldo della nonviolenza. Prima ancora di fare del bene è importante non collaborare con il male, diceva il Mahatma Gandhi. I ragazzi russi e ucraini che rifiutano le armi (rischiando di persona, affrontando il carcere e il disprezzo), sono gli unici che si sottraggono alla guerra e prefigurano una via di pace. I mezzi di informazione di massa non ne parlano perché sanno che il loro esempio sarebbe contagioso (così come lo fu per molti ragazzi americani ai tempi del Vietnam). Ogni recluta può essere un obiettore di coscienza, ogni soldato un disertore. Dobbiamo aiutare e sostenere ogni singolo obiettore, dell’una e dell’altra parte: patrioti disarmati che non vogliono odiare la patria altrui.

6) Quella fiscale contro le spese militari poterebbe essere una campagna di obiezione da rilanciare oggi? (ovviamente assumendosene le responsabilità, come succedeva prima del 1972 per il militare)

Purtroppo il sistema tributario odierno, con la tassazione alla fonte, non permette più una vera e propria obiezione fiscale alle spese militari, come si poteva fare con la Campagna che mettemmo in atto dal 1981 al 1998. Tuttavia nella nostra proposta di legge per la Difesa civile non armata e nonviolenta (sostenuta dalla campagna Un’altra difesa è possibile), è prevista la possibilità dell’opzione fiscale, cioè la possibilità per il cittadino contribuente di scegliere se finanziare la difesa armata o la difesa nonviolenta. Dobbiamo impegnarci affinché questa prospettiva diventi politicamente realizzabile.

7) Dopo la manifestazione nazionale del 5 novembre, è ipotizzabile la ripresa di un movimento per la pace che possa contare su “grandi numeri”? Oppure dal 2003 (il momento pacifista “superpotenza mondiale”, come scriveva qualcuno) a oggi sono cambiate troppe cose e quella situazione non è più proponibile? Perché?

Portare più di 100.000 persone in piazza, coinvolgendo oltre 600 organizzazioni, è stato un risultato politico importante. Soprattutto perché la manifestazione del 5 novembre a Roma non è un fatto isolato, ma fa parte di un percorso che è partito da lontano, da quando – con l’Arena di pace e disarmo del 2014 – è iniziato il processo di costruzione della Rete italiana Pace e Disarmo che dà voce ad un movimento pacifista finalmente maturo (che non si accontenta di slogan o ritualità) che è anche un soggetto politico autonomo ed indipendente. La mobilitazione permanente in atto che ora si riconosce nel cartello “Europe for Peace”, ha l’ambizione di mettere in campo un movimento europeo che possa essere interlocutore di partiti, governi e diplomazie per la costruzione di una Agenda di pace. Il movimento pacifista è già maggioritario nell’opinione pubblica.

Mao Valpiana

Presidente del Movimento Nonviolento

Esecutivo di Rete italiana Pace e Disarmo

foto di riccardo lorenzi

Domande di Luca Kocci (Adista)

risposte di Mao Valpiana

Cambiano i governi ma le spese militari aumentano sempre. Sabato in piazza per la pace

21 giovedì Lug 2022

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Movimento Nonviolento, Rete Pace e Disarmo

Il Quotidiano Il Riformista il 21 luglio 2022 ha pubblicato questa intervista a Mao Valpiana, a pagina 2. La riportiamo integralmente.

Se i pacifisti fossero saliti al Quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, della delegazione avrebbe di sicuro fatto parte Mao Valpiana. Per la sua storia, per le battaglie condotte nel tempo. Presidente del Movimento non violento, membro dell’Esecutivo di Rete Italiana Pace e Disarmo, Valpiana è anche direttore della rivista Azione non violenta, fondata nel 1964 da Aldo Capitini. In una lettera aperta a Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri ed Emma Bonino, sostenitori dell’invio di armi all’Ucraina, Valpiana ha affermato che “Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva”. Una pratica che ha caratterizzato la sua vita. E che Valpiana rilancia nell’intervista. Guardando alla mobilitazione pacifista del 23 luglio.

1) Se i pacifisti fossero saliti al quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, che avrebbero detto al Capo dello Stato?

Be’, intanto l’avremmo ringraziato, essendo la nostra prima volta al Colle per una consultazione, come invece avviene per i partiti e le parti sociali, nonostante il movimento pacifista rappresenti gran parte dell’opinione pubblica italiana e abbia sempre cercato l’interlocuzione con la politica e le istituzioni. Poi avremmo iniziato il dialogo partendo da due punti fermi della nostra Costituzione, senza tenere fede ai quali non è possibile risolvere nessuna delle crisi in cui siamo precipitati: politica, sociale, economica, ecologica, persino culturale (e qualcuno dice anche antropologica). Il primo punto è il ripudio della guerra, sancito dall’articolo 11 della Carta. Il governo ha il dovere di essere conseguente e non può avallare nessuna politica che giustifichi la guerra “come risoluzione delle controversie internazionali”, dunque nemmeno le guerre degli altri. Il ruolo dell’Italia previsto dai Costituenti dev’essere quello di una “potenza di pace”, quindi tutti gli sforzi (e i conseguenti finanziamenti) vanno indirizzati a sostenere gli organismi internazionali (a partire dall’ONU) preposti a rapporti pacifici tra le nazioni. Questo non è un “mondo dei sogni”, ma dovrebbe essere il timone del governo del nostro Paese. Il secondo punto fermo è scritto nell’articolo 52 della Carta, “la difesa è una sacro dovere”. Non dice “difesa armata”, ma parla solo di “difesa” che viene affidata ai cittadini, e non ai militari. Dunque la domanda legittima da porre al Capo dello Stato sarebbe: quali sono i pericoli reali dai quali dobbiamo difenderci? E con quali mezzi? Quale politica deve attuare il governo per difenderci dalla emergenza climatica, dalla recessione, dalla disoccupazione, dalla fragilità ambientale? I veri nemici oggi sono la povertà crescente e le emissioni di gas serra: questi nemici si battono con politiche economiche ed energetiche lungimiranti, non con le nuove produzioni dell’industria bellica.

2) Per essersi opposti all’invio di armi all’Ucraina, i pacifisti sono stati accusati di essere al servizio di Putin. La stessa accusa che Di Maio ha rivolto a Conte. Come la mettiamo?

La mettiamo che anche su questo punto il movimento per la pace italiano ha le carte in regola. Altri, arrivati all’ultimo momento a ricostruirsi una verginità, forse molto meno. Noi abbiamo sempre denunciato e condannato il fatto che l’Italia e l’Europa vendessero armi sia alla Ucraina che alla Russia. L’abbiamo fatto nei decenni, non da oggi; ci sono i nostri dossier e le campagne a testimoniarlo. Lo facevamo anche quando il nostro paese vendeva blindati Iveco alla Russia di Putin, nonostante l’embargo e le sanzioni in vigore dopo la guerra del Donbass del 2014. Altri, che oggi fanno finta di essere pacifisti, con la Russia ci facevano gli affari. Noi siamo pacifisti, ma non utopisti. Anzi, il nostro pacifismo è molto concreto e pragmatico; ci opponiamo all’invio di armi perché riteniamo che altri e più efficaci dovrebbe essere gli aiuti e la solidarietà verso una popolazione attaccata e invasa, ma anche perché lo dice la Legge 185/90 che prevede il divieto di esportazione verso i Paesi in stato di conflitto armato, tant’è che il Consiglio dei Ministri ha dovuto applicare una deroga per la cessione delle armi all’Ucraina. L’iper realismo dell’attuale Ministro degli Esteri, divenuto estremista dell’atlantismo, lo ha portato a barattare la solidarietà verso l’Ucraina con il tradimento del popolo Curdo sacrificato in cambio dell’unità della Nato. Questo realismo io lo chiamo cinismo.

3) Le spese militari hanno battuto ogni record con il governo Draghi che ha alla guida del ministero della Difesa un esponente, Lorenzo Guerini, del Partito Democratico…

In tema di spese militari, ormai ogni governo polverizza il record precedente. Quest’anno il Bilancio del Ministero della Difesa sfiorerà i 26 miliardi di euro, cioè un +5,4% rispetto al 2021. Al di là del colore dei vari governi, l’Italia non ha avuto una contrazione delle spese militari negli ultimi anni ma anzi abbiamo visto una crescita molto rilevante legata soprattutto all’acquisto di nuovi armamenti, cioè spendiamo tanto per comprare nuovi cacciabombardieri, nuove navi, nuovi carri armati. E così torniamo a quanto dicevo prima: sono questi gli strumenti che come popolo ci fanno sentire più sicuri? È più utile avere in garage un F35 a capacità nucleare, o un Canadair per spegnere gli incendi in Sardegna? Su questo tema penso che il Partito Democratico viva una certa schizofrenia … da una parte c’è chi come Rosy Bindi dice “Inaccettabile aumentare la spesa militare, la pace non si fa con le armi; bisogna ripensare la funzione della Nato“, mentre dall’altra il Ministro Guerini dice che “l’aumento delle spese militari è un impegno da rispettare perché l’Italia deve dimostrarsi affidabile nei confronti dei suoi alleati della Nato”; sono due visioni antitetiche, e su questo il PD non è ancora riuscito a fare sintesi.

4) I pacifisti insistono molto sul principio della “neutralità attiva”. L’accusa è che in questo modo mettete sullo stesso piano l’aggressore – la Russia – e l’aggredito -l’Ucraina.

Chi dice questo è in malafede. Non c’è bisogno di scomodare Gandhi per saper distinguere la violenza di oppressione dalla violenza degli oppressi, la violenza di chi attacca dalla violenza di chi si difende. Tuttavia, se la nonviolenza condanna e combatte la violenza del carnefice (la Russia di Putin), essa però viene a rimettere in questione anche la violenza della vittima (l’Ucraina di Zelensky). Solidarizzare con le vittime non obbliga ad assumere il loro punto di vista, ma significa anche aiutarle a liberarsi dalla loro violenza.

Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni della nazione invasa non richiede automaticamente che si debba inviare armi o intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità come il popolo palestinese o quello curdo. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza e une escalation del conflitto. L’Ucraina ha deciso di intraprendere la via della difesa armata mobilitando tutti i cittadini maschi dai 18 ai 60 anni e, tra l’altro, imprigionando gli obiettori di coscienza. Crediamo che non sia questa la via da seguire, anche perché i risultati sul piano militare non si vedono … Occorre invece un salto di qualità che può essere fatto solo mettendo in atto la ratio della lotta nonviolenta che è quella di “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, ritirare tutte le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing” e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La “neutralità attiva” – che non è equidistanza – è ancorata al diritto internazionale con un effettivo impegno per la neutralità dell’Ucraina come parte del processo di distensione regionale e attivando un dialogo diretto tra le istituzioni europee, a partire dal Consiglio d’Europa, e la Federazione Russa, in una logica di sicurezza condivisa, di cooperazione e di promozione dei diritti umani e della democrazia

5) Sabato prossimi i pacifisti saranno in tante piazze italiane. Con quali propositi?

Sono decine e decine le città che hanno aderito alla mobilitazione di Europe for Peace del 23 luglio, a 150 giorni dall’inizio della guerra: una mobilitazione nazionale per far tacere le armi e per aprire un serio negoziato che porti ad una conferenza internazionale di pace.

Noi ci impegniamo a lavorare insieme PER UN’EUROPA DI PACE, con l’obiettivo di costruire una proposta di cosa deve essere e cosa deve fare l’Europa di Pace, attraverso il lavoro comune di una grande alleanza della società civile europea, che si riconosce in questi cinque punti:

  • la condanna dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e la difesa della sua indipendenza e sovranità, nonché la piena affermazione dei diritti umani delle minoranze e di tutti i gruppi linguistici presenti in Ucraina;
  • la solidarietà con la popolazione ucraina, con i pacifisti russi che si oppongono alla guerra e con gli obiettori di coscienza di entrambe le parti;
  • il rilancio della richiesta del cessate il fuoco per l’avvio di un immediato negoziato in cui sia protagonista l’organizzazione delle Nazioni Unite;
  • l’impegno per la de-escalation militare in quanto leva fondamentale per l’iniziativa diplomatica e politica;
  • la costruzione di un sistema di sicurezza condivisa in Europa, dall’Atlantico agli Urali, fondato sulla cooperazione e il disarmo per un futuro comune.

Il metodo nonviolento funziona. Lo dice la storia

02 sabato Apr 2022

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Alex Langer, Auschwitz, Gandhi, guerra, Hiroshima, nonviolenza

«Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». Sta tutto qui, in questa frase della scrittrice Christa Wolf, il senso profondo della ricerca e della proposta nonviolenta come alternativa alla guerra.

Sul piatto tragico della storia c’è la questione della “difesa”, l’urgenza di salvare quante più vite possibili insieme alla necessità di fermare l’esercito invasore. Gli aggrediti non possono fare altro che usare gli strumenti che hanno a disposizione (armati o non armati), ma noi dobbiamo perseguire le vie efficaci del “cessate il fuoco”, sapendo che i mezzi che si usano prefigurano il fine che si raggiungerà. È Gandhi a parlare chiaro: «Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto». La necessità, anzi il dovere della difesa di un popolo aggredito è fuori discussione. Ma come attuare una difesa efficace e che salvi la vita oltre che i valori di libertà, democrazia, e le infrastrutture stesse di un paese, è la risposta che cerchiamo.

Il dilemma del Novecento si è consumato tra “Mai più Hiroshima” (fermare le armi) e “mai più Auschwitz” (fermare i carnefici). La nonviolenza ha la forza, la capacità, gli strumenti per fermare armi e carnefici? Da almeno un secolo ci sta provando, immergendosi nella storia e sperimentando il metodo nonviolento per la risoluzione dei conflitti. Lo stesso Gandhi nel pieno della seconda guerra mondiale dice che «la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà. Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi» e nel 1938 propone alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo».

Alle fallimentari esperienze storiche dei blocchi militari contrapposti sono stati concessi decenni di “prova”, mentre alla nonviolenza si chiedono risultati immediati e la si boccia se non offre soluzioni miracolose. Ma basterebbe un minimo di conoscenza storica per sapere vedere nelle pieghe del secolo i successi del metodo nonviolento là dove applicato con rigore su piccola o larga scala. Oltre ai classici lavori dei teorici della nonviolenza Gene Sharp o di Jacques Sémelin, lo studio di scienze politiche della Columbia University condotto sulle resistenze civili e armate dal 1900 al 2000 nel mondo ha dimostrato che sono state le prime ad avere più successi, rispettivamente il 59% contro il 27% nelle lotte interne anti-regime, il 41% contro il 10% in quelle contro l’occupazione di un paese o per l’autodeterminazione, e ancora il metodo nonviolento detiene il monopolio dei successi nell’affermazione delle lotte contro l’apartheid e per i diritti civili (mentre nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta zero vittorie e quella violenta l’esile percentuale del 10%). Dunque, la nonviolenza, quando applicata seriamente, e per fini di democrazia, giustizia e libertà, funziona.

Alexander Langer, il profeta/politico della nonviolenza europea aveva un programma preciso: «I movimenti per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti», con tanto realismo politico che lo portava a riconoscere che anche la nonviolenza può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo: «Un fallimento di un’azione di pace lascia però meno macerie di un riuscito intervento militare».

Tra guerra e resa, la terza via della nonviolenza

26 sabato Mar 2022

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Ucraina

No alla guerra ma sì alla difesa. È possibile?

Il punto decisivo e dirimente di tutta la discussione sul “pacifismo” è: come ci si difende meglio? con le armi o senza armi?

Esprimere una posizione contraria all’invio di armi in Ucraina è una valutazione di contesto. È fondata sull’esperienza ed i risultati negativi di trent’anni di guerre (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Cecenia: dove sono finite le armi? agli eserciti regolari o alle bande paramilitari? che uso ne è stato fatto? Con quali conseguenze?) e sulla necessità di costruire una strategia alternativa allo schema di gioco imposto dalle armi stesse: misurarsi sul terreno militare, del terrore, della minaccia della guerra nucleare. Significa invocare la soluzione politica e la difesa della vita.

La soluzione facile non c’è altrimenti non saremmo qua a piangere, a temere per il futuro stesso dell’Europa; ma se non la cerchiamo subito non ci sarà alternativa alla guerra con le sue annunciate conseguenze: occupazione dell’Ucraina con la distruzione del paese, migliaia di morti, feriti, invalidi e milioni di profughi. Lo scenario più terribile e probabile è quello di un’Ucraina occupata militarmente, di uno scontro generalizzato, di un Afghanistan permanente nel cuore d’Europa.

Le guerre non si debbono fare: l’ONU è nata per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, e l’Italia il ripudio di questo strumento ce l’ha scritto in Costituzione.

La storia della nonviolenza moderna è storia di movimenti di difesa. Gandhi difendeva l’indipendenza dell’India; Martin Luther King difendeva i diritti dei neri; Nelson Mandela difendeva la libertà del Sudafrica; oggi i movimenti nonviolenti nel mondo agiscono in difesa della vita di chi fugge dalle guerre. Come difendersi e difendere la pace senza aumentare la violenza già in atto, è un problema che non può ridursi all’alternativa tra subire o fare la guerra.

La sintesi tra i due pacifismi, quello “profetico” e quello “concreto”, sta nella nonviolenza che si pone due imperativi: l’etica e l’efficacia. È il problema al quale hanno cercato risposte, in epoche e contesti diversi, Gandhi, Capitini, Langer.

Il pensiero di Gandhi (verificato nella teoria e nella pratica) era chiaro e non manipolabile già nel 1939: “Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi” e propose alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: “L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo”.

E Aldo Capitini, che conobbe le conseguenze del secondo conflitto mondiale, dopo le bombe su Horoshima e Nagasaki sentì l’urgenza di aprire una varco nuovo nella storia, superando l’orrore della guerra con il metodo della nonviolenza: “Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verrà stanchezza e disgusto; e salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore”.

Alex Langer si trovò ad affrontare concretamente il dilemma dell’alternativa alla guerra nel 1993 nell’assedio di Sarajevo: “Oggi penso che davvero occorra un uso misurato e mirato della forza internazionale, e quindi nel quadro dell’Onu. Per fare cosa? Non certo per appoggiare alcuni dei contendenti contro altri, ma per fermare alcune azioni particolarmente intollerabili e far capire che c’è un limite”, che la logica della guerra non paga.

Dunque il tema che il pacifismo pone da almeno mezzo secolo è quello della costruzione di un sistema di difesa e sicurezza non offensivo. Non sto parlando di utopie, ma della revisione radicale dell’industria europea di difesa che oggi non risponde più alle esigenze reali dei singoli paesi, ma è concentrata sulla competitività sui mercati esteri: oltre il 60% dei prodotti militari europei vanno al mercato del Mediterraneo allargato (Nord Africa, Paesi Arabi, Medio Oriente, ecc.) contribuendo di fatto all’aumento dei conflitti e alla tensione nel mondo, cioè alla nostra insicurezza globale anziché alla nostra sicurezza. Quindi quando proponiamo la revisione del modello di difesa, basato su criteri di sostenibilità, razionalizzazione, riconversione, e chiediamo una politica estera alternativa al modello imposto dalla Nato, stiamo facendo politica nonviolenta di prevenzione dei conflitti di oggi e del futuro e rispondiamo alla supplica di Papa Francesco: “i governanti capiscano che comprare armi e dare armi non è la soluzione al problema”.

La soluzione è prendere sul serio la nonviolenza.

* Presidente del Movimento Nonviolento e Esecutivo Rete italiana Pace Disarmo

San Massimiliano, patrono degli obiettori di coscienza

12 sabato Mar 2022

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OGGI E’ SAN MASSIMILIANO
PATRONO DEGLI OBIETTORI DI COSCIENZA
Che dia forza e coraggio a quei giovani che stanno rifiutando di arruolarsi in una guerra che porterà nel baratro i popoli che dice di voler difendere. Rifiutano due contrapposti militarismi, due esasperati nazionalismi. Gli obiettori ucraini vogliono difendere la loro patria con la resistenza nonviolenta. Gli obiettori russi vogliono combattere la dittatura con gli strumenti della libertà.
Obiettori ucraini e russi rifiutano le armi che portano solo morte.
Siano protetti dalla forza e dal coraggio della nonviolenza.

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