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Il metodo nonviolento funziona. Lo dice la storia

02 sabato Apr 2022

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Alex Langer, Auschwitz, Gandhi, guerra, Hiroshima, nonviolenza

«Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». Sta tutto qui, in questa frase della scrittrice Christa Wolf, il senso profondo della ricerca e della proposta nonviolenta come alternativa alla guerra.

Sul piatto tragico della storia c’è la questione della “difesa”, l’urgenza di salvare quante più vite possibili insieme alla necessità di fermare l’esercito invasore. Gli aggrediti non possono fare altro che usare gli strumenti che hanno a disposizione (armati o non armati), ma noi dobbiamo perseguire le vie efficaci del “cessate il fuoco”, sapendo che i mezzi che si usano prefigurano il fine che si raggiungerà. È Gandhi a parlare chiaro: «Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto». La necessità, anzi il dovere della difesa di un popolo aggredito è fuori discussione. Ma come attuare una difesa efficace e che salvi la vita oltre che i valori di libertà, democrazia, e le infrastrutture stesse di un paese, è la risposta che cerchiamo.

Il dilemma del Novecento si è consumato tra “Mai più Hiroshima” (fermare le armi) e “mai più Auschwitz” (fermare i carnefici). La nonviolenza ha la forza, la capacità, gli strumenti per fermare armi e carnefici? Da almeno un secolo ci sta provando, immergendosi nella storia e sperimentando il metodo nonviolento per la risoluzione dei conflitti. Lo stesso Gandhi nel pieno della seconda guerra mondiale dice che «la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà. Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi» e nel 1938 propone alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo».

Alle fallimentari esperienze storiche dei blocchi militari contrapposti sono stati concessi decenni di “prova”, mentre alla nonviolenza si chiedono risultati immediati e la si boccia se non offre soluzioni miracolose. Ma basterebbe un minimo di conoscenza storica per sapere vedere nelle pieghe del secolo i successi del metodo nonviolento là dove applicato con rigore su piccola o larga scala. Oltre ai classici lavori dei teorici della nonviolenza Gene Sharp o di Jacques Sémelin, lo studio di scienze politiche della Columbia University condotto sulle resistenze civili e armate dal 1900 al 2000 nel mondo ha dimostrato che sono state le prime ad avere più successi, rispettivamente il 59% contro il 27% nelle lotte interne anti-regime, il 41% contro il 10% in quelle contro l’occupazione di un paese o per l’autodeterminazione, e ancora il metodo nonviolento detiene il monopolio dei successi nell’affermazione delle lotte contro l’apartheid e per i diritti civili (mentre nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta zero vittorie e quella violenta l’esile percentuale del 10%). Dunque, la nonviolenza, quando applicata seriamente, e per fini di democrazia, giustizia e libertà, funziona.

Alexander Langer, il profeta/politico della nonviolenza europea aveva un programma preciso: «I movimenti per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti», con tanto realismo politico che lo portava a riconoscere che anche la nonviolenza può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo: «Un fallimento di un’azione di pace lascia però meno macerie di un riuscito intervento militare».

Afghanistan, ora ci vuole la nonviolenza

01 mercoledì Set 2021

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Afghanistan, Badshah Khan, Gandhi, guerra, pace

La prima vittima della guerra è la verità.

In Afghanistan quello che è accaduto negli ultimi 20 anni, dal 2001 al 2021, si è retto sulla menzogna, una montagna di bugie sostenute e diffuse dai militari combattenti delle varie fazioni, dai politici responsabili delle scelte fatte, dall’informazione al soldo degli interessi in campo. Poi ci sono le vittime in carne ed ossa, bambini, donne, uomini, morti o feriti sotto le bombe, negli attentati, negli scontri, o cercando di fuggire da un futuro di paura.

La guerra cambia il significato delle parole: gli invasori diventano liberatori, i terroristi diventano patrioti, i morti degli altri diventano effetti collaterali.

L’attacco terroristico dell’11 settembre a New York (il primo della storia in diretta televisiva) non poteva rimanere senza risposta, ma quella dell’invasione dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Kabul, è stata la più sbagliata: ha innescato reazioni a catena con variabili indipendenti e fuori controllo, che in vent’anni hanno determinato una situazione insostenibile. La fuga precipitosa degli eserciti stranieri lascia il campo in mano proprio a chi doveva essere battuto. E quel che è peggio, gli lascia in eredità un ingente arsenale di armi che dovevano “esportare la democrazia” e ora saranno al servizio del nuovo Emirato islamico: cambia ideologia, ma la violenza è la stessa. Un’intera generazione è cresciuta conoscendo solo la guerra come condizione di vita e di morte.

I risultati di quella guerra sono la diminuzione delle aspettative di vita degli afghani, la crescita della mortalità infantile, l’aumento della povertà e il calo dell’alfabetizzazione. Solo i produttori di sistemi militari si sono arricchiti a dismisura (con un rendimento addirittura dell’872% ci dicono gli analisti della Rete Pace e Disarmo, di Opal, di Milex, gli unici che forniscono i dati reali di questa guerra che all’Italia è costata 8,7 miliardi di euro).

Ora vige il caos ed è facile prevedere che si aprirà la stagione della guerra civile tra le diverse etnie sostenute da altre potenze esterne. Il bottino Afghanistan è troppo ghiotto, ricco com’è di materie prime (tra l’altro produttore dell’80% di oppio a livello mondiale), e la cui importanza strategica geopolitica è determinata dal suo ruolo di crocevia asiatico. Qualsiasi tentativo di semplificazione della storia e dell’attualità afghana porterebbe ad errori di valutazione, ma è fuori di dubbio che oggi le influenze maggiori sul suo futuro si giocano tra Pakistan, Cina, Russia, Turchia, Iran, ma anche sul ruolo che i giovani afghani vorranno prendere nelle proprie mani. In questi giorni i riflettori sono puntati sull’aeroporto internazionale di Kabul, ma la stragrande maggioranza delle persone, donne, uomini e ragazzi dell’Afghanistan di domani, sono nelle province, nelle periferie, nelle montagne e sugli altipiani di quella sterminata regione, dove i “corridoi umanitari” non arriveranno mai e dove si determineranno i destini di quelle persone. Le poche reali informazioni che abbiamo vengono dalle Organizzazioni non governative, anche italiane, o dalle Agenzie internazionali che sono e restano davvero presenti sul territorio nonostante i disastri combinati dall’operazione militare Usa-Nato. Sono le sole voci, insieme a quelle delle associazioni della società civile afghana, oggi ascoltabili e che possono parlare con dignità. Irricevibili e vergognose, invece, le parole ipocrite di politici e partiti che avevano sostenuto le ragioni dell’intervento armato, votato i finanziamenti della missione militare, e di giornalisti ed “esperti” che hanno giustificato la “guerra giusta” contro il terrorismo internazionale e per “liberare le donne” dal burka, ed ora ci spiegano, con la stessa faccia tosta, la necessità dell’aiuto umanitario, affidato a quelle stesse forze armate artefici del clamoroso fallimento militare. Ma davvero non si vergognano?

Davanti a questo sfacelo, ampiamente previsto da chi si è opposto a questa guerra infinita, come a tutte le guerre, ci sono solo tre cosa da fare:

– moltiplicare l’impegno nonviolento contro la preparazione della prossima guerra (contro l’industria bellica, contro i bilanci militari, contro le banche armate, per la smilitarizzazione e l’istituzione della difesa civile non armata e nonviolenta);

– offrire aiuto alle vittime della guerra, ai profughi che fuggono dalla violenza;

– sostenere l’islam nonviolento contro il fondamentalismo talebano, sull’esempio di Abdul Ghaffar, detto Badshah Khan(il Gandhi musulmano), che operò in Pakistan e Afghanistan, fondando il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente.

Einstein aveva ragione su tutto. Dalla fisica all’antimilitarismo.

14 domenica Feb 2016

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Einstein, Gandhi, guerra, Hitler, pace, Stalin

Le onde gravitazionali, la scoperta del secolo, hanno riportato alla ribalta del grande pubblico la teoria della relatività. “Aveva ragione Einstein” hanno titolato tutti i giornali del mondo. Ed in effetti il grande fisico tedesco (poi trasferitosi negli Stati Uniti per sfuggire all’antisemitismo nazista) oltre ad essere un genio della fisica (“perché sono curioso”, diceva di se stesso), era anche un ricercatore della pace. Un secolo dopo possiamo dire che aveva ragione su tante cose.

Era un visionario del futuro, e aveva visto giusto sul crollo delle ideologie, e quale sarebbe stata l’unica idea per salvare l’umanità: la nonviolenza.

“Credo che le idee di Gandhi siano state, tra quelle di tutti gli uomini politici del nostro tempo, le più illuminate. Noi dovremmo sforzarci di agire secondo il suo insegnamento, rifiutando la violenza e lo scontro per promuovere la nostra causa, e non partecipando a ciò che la nostra coscienza ritiene ingiusto. Le future generazioni difficilmente potranno credere che qualcuno come lui sia stato sulla terra in carne e ossa”.

Albert Einstein è stato il pioniere delle fisica quantistica, e con la stessa lucidità è stato il pioniere del pacifismo integrale, dell’obiezione di coscienza. L’antimilitarismo è il caposaldo del suo pensiero contro la guerra:

“Questo argomento (la guerra) mi induce a parlare della peggiore fra le creazioni, quella delle masse armate, del regime militare voglio dire, che odio con tutto il cuore. Disprezzo profondamente chi è felice di marciare in ranghi e nelle formazioni al seguito di una musica; costui ha ricevuto solo per errore il cervello: un midollo spinale gli sarebbe più che sufficiente. Bisogna sopprimere questa vergogna della civiltà il più rapidamente possibile. L’eroismo comandato, gli stupidi corpo a corpo, il nefasto spirito nazionalista, come odio tutto questo!”.

Einstein individua nella guerra il peggiore dei mali, il più grande crimine. Ma il suo non è un pacifismo utopista, ingenuo, avulso dalla storia. Einstein individua le cause che preparano la guerra, e il sistema di potere che la sostiene. Il legame economia/propaganda è lo stesso che ancor oggi foraggia le guerre in corso:

“La guerra mi appare ignobile e spregevole! Sarei piuttosto disposto a farmi tagliare a pezzi che partecipare ad un’azione cosi miserabile. Eppure, nonostante tutto, io stimo tanto la umanità da essere persuaso che questo fantasma malefico sarebbe da lungo tempo scomparso se il buon senso dei popoli non fosse sistematicamente corrotto, per mezzo della scuola e della stampa dagli speculatori del mondo politico e del mondo degli affari”.

La grandezza di un genio la si misura anche dalla sua umiltà nel riconoscere chi è più avanti. Einstein, genio della fisica, riconosce a Gandhi la modernità assoluta nel campo della politica:

“Gandhi, il più grande genio politico del nostro tempo, ci ha indicato la strada da percorrere. Egli ci ha mostrato di quali sacrifici l’uomo sia capace una volta che abbia scoperto il cammino giusto. Dovremmo sforzarci di fare le cose allo stesso modo: non utilizzando la violenza per combattere per la nostra causa, ma non-partecipando a qualcosa che crediamo sia sbagliato”.

I due geni del novecento, Einstein e Gandhi, ci hanno quindi lasciato in eredità due idee rivoluzionarie da studiare e sperimentare. La curvatura dello spazio/tempo e la nonviolenza attiva sono oggi le evidenze assolute che ci aprono al futuro, per capire l’universo e l’animo umano.

Alla fine, come spesso accade, la verità ha avuto la sua rivalsa. Il novecento non è stato solo il secolo breve stretto tra le due guerre mondiali. I potenti dell’epoca, Hitler e Stalin sono stati sconfitti e bocciati dalla storia. Einstein e Gandhi, i profeti disarmati, sono ancora attualissimi e sanno parlare alle giovani generazioni indicando la strada da seguire.

John Lennon, profeta dell’oggi

06 domenica Dic 2015

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Armi, Gandhi, guerra, John Lennon, Martin Luther King, Terrorismo, Yoko Ono

Mai come quest’anno, trentacinquesimo anniversario (8 dicembre 1980-2015), la morte violenta di John Lennon si riempie di significati e forti collegamenti con l’attualità.

people for peace

Armi. E’ stato ucciso con cinque colpi sparati da una calibro 38, acquistata liberamente alle Havaii, che nessun metal detector fermò quando il suo assassino volò a New York per attuare l’omicidio. Tra le tante cause pacifiste che John aveva abbracciato, c’era anche quella contro il commercio delle armi. Una campagna che ora prosegue la vedova Yoko Ono che ha postato su Facebook e Twitter la foto degli occhiali insanguinati di John Lennon, per una legge più restrittiva sul possesso di armi da fuoco: “Più di 1.057.000 persone sono state uccise da armi da fuoco negli Stati Uniti da quando John fu ucciso”. Pochi giorni fa la strage di San Bernardino.

Terrorismo. Contro la violenza politica Lennon non ha risparmiato critiche e condanne senza appello. Il suo messaggio ai giovani era inequivocabile: “A cosa serve mettere le bombe a Wall Street? Se vuoi cambiare il sistema, cambia il sistema, non serve a niente ammazzare la gente. Se vuoi la pace non la otterrai mai con la violenza. Ditemi quale rivoluzione violenta ha funzionato. L’hanno fatto gli irlandesi, i russi, i francesi, i cinesi, e questo dove li ha portati? Da nessuna parte. E’ sempre lo stesso vecchio gioco. Chi guiderà il crollo? Chi prenderà il potere? I peggiori distruttori. Sono sempre loro ad arrivare primi. Quello che ho detto in molte mie canzoni è: cambiate la vostra testa. L’unico sistema per assicurare una pace durevole è cambiare la nostra mentalità: non c’è altro metodo”.

ISIS. Il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi vuole espandere con il terrore della jihad globale una nuova realtà statuale: confini, conquiste, leggi, potere. Esattamente il contrario della visione di Lennon che il primo aprile del 1973 annunciava la nascita di Nutopia. In una conferenza stampa si dichiara ufficialmente ambasciatore di Nutopia, un “paese concettuale” senza confini, senza muri, senza passaporti. La bandiera di Nutopia è un fazzoletto bianco e l’inno internazionale è inciso nell’album Mind Games: una traccia muta con 5 secondi di silenzio. Per diventare cittadini di Nutopia basta aderire alla sua Costituzione, che è il testo della canzone Imagine (Immagina che non esistano frontiere, niente per cui uccidere o morire). Tutti i cittadini di Nutopia sono suoi ambasciatori nel mondo. Lennon chiese all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di riconoscere il paese di Nutopia. Non fu preso sul serio, ma se oggi all’Onu ci fosse un seggio per Nutopia, avremmo una possibilità in più contro Isis.

Guerra. Tutto ciò che era in suo potere di fare contro la guerra, l’ha tentato. In primis contro la guerra del Viet-nam (1960-1975), restituendo l’onorificenza MBE da Baronetto per protestare contro il coinvolgimento della Gran Bretagna nell’industria bellica mondiale, organizzando il famosissimo concerto Live Peace in Toronto (13 settembre 1969); si coinvolge in manifestazioni, iniziative pubbliche, finanzia i movimenti pacifisti come il CND (Campaign for Nuclear Disarmament).

John Lennon (1940 - 1980) and Yoko Ono pose on the steps of the Apple building in London, holding one of the posters that they distributed to the world's major cities as part of a peace campaign protesting against the Vietnam War. 'War Is Over, If You Want It'.   (Photo by Frank Barratt/Getty Images)

Per il Natale del 1969 fa riempire le città americane e le principali capitali del mondo con giganteschi manifesti con la scritta “War is over” (“la guerra è finita – se tu lo vuoi”, firmati “con amore, John e Yoko, da NY”). Durante la campagna elettorale presidenziale del 1973, in ogni angolo d’America dove c’è un’iniziativa elettorale con Nixon, lì John organizza un concerto rock di protesta contro la guerra che attira migliaia di giovani invitati a disertare la manifestazione del partito repubblicano.

Pace. Il viaggio di nozze con Yoko (20 marzo 1969) diventa un’occasione per promuovere la pace nel mondo, inventando il “bed in”: una settimana in una camera da letto d’albergo, la numero 702 dell’Hilton di Amsterdam, lui e Yoko, a rilasciare interviste a giornali di tutto il mondo sul tema della pace. L’evento ha un successo enorme, e viene ripetuto nella suite 1742 del Fairmont Queen Elizabeth Hotel di Montréal, dove viene composta la canzone Give Peace a Chance, che è ora l’inno del movimento pacifista mondiale. Insieme a Yoko compra intere pagine dei giornali americani per pubblicare i loro pensieri di pace. E’ nell’ambito di quella campagna pacifista che John invia ad una cinquantina di leader mondiali e capi di Stato due ghiande ciascuno, dicendo loro di sotterrarle e guardare la crescita della quercia, così l’idea della pace gli sarebbe entrata in testa (un bel connubio di pace ed ecologia, che ci richiama alla conferenza COP21 di Parigi).

Curiosità: il maresciallo Tito, allora capo della Jugoslavia, fu entusiasta dell’iniziativa e piantò le due ghiande nel cortile della residenza presidenziale di Belgrado. Le due ghiande sono cresciute e diventate due alte querce che oggi hanno 45 anni e costituiscono una sorta di monumento vivente alla pace in Serbia.

Nonviolenza. John Lennon non è solo nostalgia. Era un artista completo, le sue opere ci parlano ancora oggi. Era un visionario, con uno sguardo proiettato nel futuro. Per questo i giovani di Parigi dopo la strage del Bataclan cantavano Imagine, che è un inno alla speranza.

La sua visione nonviolenta era molto chiara: “I fini non giustificano i mezzi. Dobbiamo imparare dai metodi utilizzati da Gandhi e da Martin Luther King. La gente ha già il potere; tutto quello che noi dobbiamo fare è prenderne coscienza. Alla fine accadrà, deve accadere. Potrebbe essere adesso o fra cento anni, ma accadrà. Credo che gli anni sessanta siano stati un grande decennio. Sono stati la gioventù che si è riunita e ha detto: crediamo in Dio, crediamo nella speranza e nella verità, ed eccoci tutti insieme in pace. I giovani hanno speranze perché sperano nel futuro e se sono depressi per il loro futuro allora siamo nei guai. Noi dobbiamo tenere viva la speranza tenendola viva fra i giovani. Io ho grandi speranze per il futuro”.

Natale. Infine, una risposta John Lennon la dà anche a coloro che brandiscono statuine del presepio e canti natalizi come un’arma contro il nemico, il diverso. E’ contenuta nel testo della sua canzone/manifesto Happy Christmas (War is over) – Buon Natale (la guerra è finita).

E così questo è il NaLennon_statue_of_libertytale (la guerra è finita)

per i deboli e per i forti (se lo vuoi)

per i ricchi e per i poveri (la guerra è finita)

il mondo è così sbagliato (se lo vuoi)

e così buon Natale (la guerra è finita)

per i neri e per i bianchi (se lo vuoi)

per i gialli e per i neri (la guerra è finita)

fermiamo tutte le guerre (adesso)

La straordinaria attualità di Gandhi: religione e laicità, contro il terrorismo e ogni guerra

30 venerdì Gen 2015

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Bibbia, Buddha, Corano, Gandhi, Giuseppe Mazzini, guerra, san Francesco, Terrorismo

Non aveva partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità o nonviolenza), perché la separazione tra India e Pakistan era per lui una grande sconfitta. E’ stato assassinato da un giornalista indù, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indù, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un pericolo. Sono passati 67 anni, da quel 30 gennaio del 1948, e il fondamentalismo è ancora un pesante ostacolo per i processi di pacifica convivenza; il terrorismo internazionale si maschera dietro una religione per raggiungere l’obiettivo politico di destabilizzare e conquistare potere.

Dunque, non si può parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: “E’ l’elemento permanente della natura umana; non ritiene nessun sacrificio troppo grave per trovare piena espressione e lascia l’anima totalmente inquieta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e sperimentato la vera corrispondenza fra il creatore e se stessa”. E poi prosegue: “Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo. Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi…”.

Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verità, perché Dio stesso è Verità, e la Verità è Dio. In questo senso per Gandhi ogni problema che si pone, ogni questione che si deve affrontare, politica, sociale, economica, etica, collettiva o personale, è una sfida religiosa: “per me ciascuna attività, anche la più modesta, è guidata da quella che io considero la mia religione… la mia attività politica, come tutte le altre mie attività, procede dalla religione… perciò anche nella politica dobbiamo stabilire il regno dei cieli”. Tuttavia in Gandhi c’è posto anche per una piena laicità. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: “se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e così via, ma non della vostra o mia religione. Questa è affare personale di ciascuno”.

Forse non è un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi (riformatore religioso) e Giuseppe Mazzini (riformatore laico).

Oggi nel mondo intero Gandhi è considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse. Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: “Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita. Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo’ essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene.”

Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi è la preziosa eredità per il nuovo secolo.

La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dagli Stati Uniti di Martin Luther King, al Sudafrica di Mandela, dalla Birmania di Aung San Suu Kyi, al Tibet del Dalai Lama, ed in Italia con Maria Montessori, Aldo Capitini, Danilo Dolci; in America Latina e in Europa, ovunque vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha.

“Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umiltà, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed è motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno già suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dell’Occidente”.

Oggi infatti non si può parlare di pacifismo senza fare i conti con la nonviolenza gandhiana. La mobilitazione contro la guerra e il terrorismo (la guerra è terrorismo su vasta scala, e il terrorismo è una guerra contro la società) è coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità”. Gandhi condanna il ricorso alla violenza, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: “Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Dunque la nonviolenza di Gandhi è soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita è spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.

Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza, la sola via che può salvare l’umanità.

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