Una manifestazione di piazza per la pace? Benissimo. Ai leader di partito, politici, associazioni che si agitano e la invocano, suggeriamo di organizzarla con il titolo “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”.
La guerra c’è. È guerra mondiale. Le armi sono state costruite e consegnate agli eserciti. I missili sono stati lanciati. Le bombe sono state sganciate. Le città e le case sono state distrutte. I morti si contano a migliaia. Gli ordigni nucleari sono pronti al loro utilizzo.
Bisognava pensarci prima. Questa guerra è in corso e non saranno parole e striscioni a fermarla.
Bisognava lavorare per la pace in tempo di pace, bisognava fare politiche di disarmo anziché votare i bilanci militari. Bisognava non costruire le armi che oggi sparano. Bisognava sostenere le proposte preventive della nonviolenza, unica alternativa alla guerra.
Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo le guerre nel Golfo e nei Balcani, dopo le Torri Gemelle, dopo le guerra in Iraq e in Afghanistan, il tempo c’era per fare vere politiche di pace e disarmo. Ma è stato sprecato.
La strada da percorrere è già tracciata da tanti anni:
– Adesione al Trattato per la messa al bando della armi nucleari – Approvazione legge istitutiva della Difesa civile non armata e nonviolenta – Istituzione dei Corpi Civili Europei di pace – Riduzione spese militari, restrizione sull’export di armi – Istituto di ricerche sulla pace e risoluzione nonviolenta dei conflitti
Questo è il programma per una politica di pace che abbiano sempre proposto nel nostro calendario delle festività civili, inascoltato dalle istituzioni:
– Ogni 2 giugno, abbiamo chiesto di festeggiare “la Repubblica disarmata che ripudia la guerra”. – Ogni 4 novembre, abbiamo invocato “Non festa ma lutto” per ricordare l’inutile strage. – Ogni 25 aprile abbiamo rinnovato: “La Liberazione oggi si chiama disarmo; la Resistenza oggi si chiama Nonviolenza”.
Il movimento pacifista parlava alla politica, ma la politica aveva altre priorità e la pace è rimasta fuori dall’agenda dei partiti e del Palazzo.
La speranza però è ancora viva. Possiamo iniziare a disarmare oggi per costruire la pace di domani.
Se ci sarà un “mea culpa” e un’assunzione di responsabilità collettiva per iniziare concretamente a fare le politiche di pace che non si sono fatte nel passato, ben venga anche la manifestazione di piazza.
Nel frattempo, con la Rete italiana Pace e Disarmo continueremo a lavorare quotidianamente in particolare sostenendo gli obiettori di coscienza, i disertori, i renitenti alla leva, i nonviolenti e i pacifisti in Russia e in Ucraina, come abbiamo fatto con la Carovana di Pace “Stop The War Now”: sono loro che concretamente possono fermare la guerra.
Come facciamo dall’inizio della guerra, saremo presenti tutte le domeniche in Piazza San Pietro all’Angelus con le bandiere della nonviolenza per sostenere il magistero di Papa Francesco che ci ha chiesto di “fare di tutto per fermare la guerra”.
Nei giorni 21, 22, 23 ottobre parteciperemo alla mobilitazione dal basso, in tutte le città in cui siamo presenti, con la rete “Europe for Peace” verso una Conferenza internazionale di pace.
A chi è preoccupato, angosciato, disorientato per il pericolo di una deflagrazione mondiale della guerra in corso, e vuole “fare qualcosa” per fermarla, diciamo che ci rimane una sola strada, quella della nonviolenza: né un uomo né un soldo per la guerra, iniziamo spezzando il nostro fucile.
Il Quotidiano Il Riformista il 21 luglio 2022 ha pubblicato questa intervista a Mao Valpiana, a pagina 2. La riportiamo integralmente.
Se i pacifisti fossero saliti al Quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, della delegazione avrebbe di sicuro fatto parte Mao Valpiana. Per la sua storia, per le battaglie condotte nel tempo. Presidente del Movimento non violento, membro dell’Esecutivo di Rete Italiana Pace e Disarmo, Valpiana è anche direttore della rivista Azione non violenta, fondata nel 1964 da Aldo Capitini. In una lettera aperta a Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri ed Emma Bonino, sostenitori dell’invio di armi all’Ucraina, Valpiana ha affermato che “Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva”. Una pratica che ha caratterizzato la sua vita. E che Valpiana rilancia nell’intervista. Guardando alla mobilitazione pacifista del 23 luglio.
1) Se i pacifisti fossero saliti al quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, che avrebbero detto al Capo dello Stato?
Be’, intanto l’avremmo ringraziato, essendo la nostra prima volta al Colle per una consultazione, come invece avviene per i partiti e le parti sociali, nonostante il movimento pacifista rappresenti gran parte dell’opinione pubblica italiana e abbia sempre cercato l’interlocuzione con la politica e le istituzioni. Poi avremmo iniziato il dialogo partendo da due punti fermi della nostra Costituzione, senza tenere fede ai quali non è possibile risolvere nessuna delle crisi in cui siamo precipitati: politica, sociale, economica, ecologica, persino culturale (e qualcuno dice anche antropologica). Il primo punto è il ripudio della guerra, sancito dall’articolo 11 della Carta. Il governo ha il dovere di essere conseguente e non può avallare nessuna politica che giustifichi la guerra “come risoluzione delle controversie internazionali”, dunque nemmeno le guerre degli altri. Il ruolo dell’Italia previsto dai Costituenti dev’essere quello di una “potenza di pace”, quindi tutti gli sforzi (e i conseguenti finanziamenti) vanno indirizzati a sostenere gli organismi internazionali (a partire dall’ONU) preposti a rapporti pacifici tra le nazioni. Questo non è un “mondo dei sogni”, ma dovrebbe essere il timone del governo del nostro Paese. Il secondo punto fermo è scritto nell’articolo 52 della Carta, “la difesa è una sacro dovere”. Non dice “difesa armata”, ma parla solo di “difesa” che viene affidata ai cittadini, e non ai militari. Dunque la domanda legittima da porre al Capo dello Stato sarebbe: quali sono i pericoli reali dai quali dobbiamo difenderci? E con quali mezzi? Quale politica deve attuare il governo per difenderci dalla emergenza climatica, dalla recessione, dalla disoccupazione, dalla fragilità ambientale? I veri nemici oggi sono la povertà crescente e le emissioni di gas serra: questi nemici si battono con politiche economiche ed energetiche lungimiranti, non con le nuove produzioni dell’industria bellica.
2) Per essersi opposti all’invio di armi all’Ucraina, i pacifisti sono stati accusati di essere al servizio di Putin. La stessa accusa che Di Maio ha rivolto a Conte. Come la mettiamo?
La mettiamo che anche su questo punto il movimento per la pace italiano ha le carte in regola. Altri, arrivati all’ultimo momento a ricostruirsi una verginità, forse molto meno. Noi abbiamo sempre denunciato e condannato il fatto che l’Italia e l’Europa vendessero armi sia alla Ucraina che alla Russia. L’abbiamo fatto nei decenni, non da oggi; ci sono i nostri dossier e le campagne a testimoniarlo. Lo facevamo anche quando il nostro paese vendeva blindati Iveco alla Russia di Putin, nonostante l’embargo e le sanzioni in vigore dopo la guerra del Donbass del 2014. Altri, che oggi fanno finta di essere pacifisti, con la Russia ci facevano gli affari. Noi siamo pacifisti, ma non utopisti. Anzi, il nostro pacifismo è molto concreto e pragmatico; ci opponiamo all’invio di armi perché riteniamo che altri e più efficaci dovrebbe essere gli aiuti e la solidarietà verso una popolazione attaccata e invasa, ma anche perché lo dice la Legge 185/90 che prevede il divieto di esportazione verso i Paesi in stato di conflitto armato, tant’è che il Consiglio dei Ministri ha dovuto applicare una deroga per la cessione delle armi all’Ucraina. L’iper realismo dell’attuale Ministro degli Esteri, divenuto estremista dell’atlantismo, lo ha portato a barattare la solidarietà verso l’Ucraina con il tradimento del popolo Curdo sacrificato in cambio dell’unità della Nato. Questo realismo io lo chiamo cinismo.
3) Le spese militari hanno battuto ogni record con il governo Draghi che ha alla guida del ministero della Difesa un esponente, Lorenzo Guerini, del Partito Democratico…
In tema di spese militari, ormai ogni governo polverizza il record precedente. Quest’anno il Bilancio del Ministero della Difesa sfiorerà i 26 miliardi di euro, cioè un +5,4% rispetto al 2021. Al di là del colore dei vari governi, l’Italia non ha avuto una contrazione delle spese militari negli ultimi anni ma anzi abbiamo visto una crescita molto rilevante legata soprattutto all’acquisto di nuovi armamenti, cioè spendiamo tanto per comprare nuovi cacciabombardieri, nuove navi, nuovi carri armati. E così torniamo a quanto dicevo prima: sono questi gli strumenti che come popolo ci fanno sentire più sicuri? È più utile avere in garage un F35 a capacità nucleare, o un Canadair per spegnere gli incendi in Sardegna? Su questo tema penso che il Partito Democratico viva una certa schizofrenia … da una parte c’è chi come Rosy Bindi dice “Inaccettabile aumentare la spesa militare, la pace non si fa con le armi; bisogna ripensare la funzione della Nato“, mentre dall’altra il Ministro Guerini dice che “l’aumento delle spese militari è un impegno da rispettare perché l’Italia deve dimostrarsi affidabile nei confronti dei suoi alleati della Nato”; sono due visioni antitetiche, e su questo il PD non è ancora riuscito a fare sintesi.
4) I pacifisti insistono molto sul principio della “neutralità attiva”. L’accusa è che in questo modo mettete sullo stesso piano l’aggressore – la Russia – e l’aggredito -l’Ucraina.
Chi dice questo è in malafede. Non c’è bisogno di scomodare Gandhi per saper distinguere la violenza di oppressione dalla violenza degli oppressi, la violenza di chi attacca dalla violenza di chi si difende. Tuttavia, se la nonviolenza condanna e combatte la violenza del carnefice (la Russia di Putin), essa però viene a rimettere in questione anche la violenza della vittima (l’Ucraina di Zelensky). Solidarizzare con le vittime non obbliga ad assumere il loro punto di vista, ma significa anche aiutarle a liberarsi dalla loro violenza.
Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni della nazione invasa non richiede automaticamente che si debba inviare armi o intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità come il popolo palestinese o quello curdo. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza e une escalation del conflitto. L’Ucraina ha deciso di intraprendere la via della difesa armata mobilitando tutti i cittadini maschi dai 18 ai 60 anni e, tra l’altro, imprigionando gli obiettori di coscienza. Crediamo che non sia questa la via da seguire, anche perché i risultati sul piano militare non si vedono … Occorre invece un salto di qualità che può essere fatto solo mettendo in atto la ratio della lotta nonviolenta che è quella di “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, ritirare tutte le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing” e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La “neutralità attiva” – che non è equidistanza – è ancorata al diritto internazionale con un effettivo impegno per la neutralità dell’Ucraina come parte del processo di distensione regionale e attivando un dialogo diretto tra le istituzioni europee, a partire dal Consiglio d’Europa, e la Federazione Russa, in una logica di sicurezza condivisa, di cooperazione e di promozione dei diritti umani e della democrazia
5) Sabato prossimi i pacifisti saranno in tante piazze italiane. Con quali propositi?
Sono decine e decine le città che hanno aderito alla mobilitazione di Europe for Peace del 23 luglio, a 150 giorni dall’inizio della guerra: una mobilitazione nazionale per far tacere le armi e per aprire un serio negoziato che porti ad una conferenza internazionale di pace.
Noi ci impegniamo a lavorare insieme PER UN’EUROPA DI PACE, con l’obiettivo di costruire una proposta di cosa deve essere e cosa deve fare l’Europa di Pace, attraverso il lavoro comune di una grande alleanza della società civile europea, che si riconosce in questi cinque punti:
la condanna dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e la difesa della sua indipendenza e sovranità, nonché la piena affermazione dei diritti umani delle minoranze e di tutti i gruppi linguistici presenti in Ucraina;
la solidarietà con la popolazione ucraina, con i pacifisti russi che si oppongono alla guerra e con gli obiettori di coscienza di entrambe le parti;
il rilancio della richiesta del cessate il fuoco per l’avvio di un immediato negoziato in cui sia protagonista l’organizzazione delle Nazioni Unite;
l’impegno per la de-escalation militare in quanto leva fondamentale per l’iniziativa diplomatica e politica;
la costruzione di un sistema di sicurezza condivisa in Europa, dall’Atlantico agli Urali, fondato sulla cooperazione e il disarmo per un futuro comune.
I 60 anni della prima Marcia storica di Aldo Capitini, da Perugia ad Assisi, vanno celebrati per conservare e trasmettere la memoria, e perché quella Marcia rappresentò una grande novità, fu a suo modo rivoluzionaria, uno spartiacque con un prima e un dopo (prima il pacifismo di partito, dopo il pacifismo nonviolento); quella Marcia diede anche un frutto fortemente voluto da Capitini stesso: la nascita del Movimento Nonviolento.
Una Marcia così non c’era mai stata in Italia. Processioni religiose sì, se ne vedevano tante, e anche cortei di partito, in tutte le regioni. Ma chiamare a raccolta gente di popolo, per camminare nelle campagne umbre con un obiettivo politico (lanciare l’idea del metodo nonviolento di lotta), era proprio una novità. Ci voleva uno come Aldo Capitini, pacifista nonviolento, libero religioso, per convocare la Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli del 24 settembre 1961.
In un momento internazionale difficile (costruzione del Muro di Berlino, avvio della crisi cubana, contrapposizione tra Patto di Varsavia e Nato con la minaccia di conflitto atomico) Capitini volle unire i filoni storici, laici e religiosi, del pacifismo socialista, comunista, cattolico, radicale, nel comune desiderio di pace per il mondo.
Il senso profondo di quella originale iniziativa fu espresso dallo stesso Capitini; bisognava che la Marcia: – partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; – dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; – fosse l’occasione per la presentazione e il “lancio” dell’idea del metodo nonviolento (da qui il richiamo alle due figure della nonviolenza, Francesco e Gandhi).
La Marcia, dapprima avversata dai partiti, fu un successo “dal basso”. Superò il vecchio pacifismo generico, che vacillò davanti alla prima e alla seconda guerra mondiale, e introdusse in Italia la nonviolenza come programma politico.
Per questo, anche se molti gli chiesero di ripetere l’iniziativa annualmente, Capitini rifiutò per evitare il rischio che la Marcia, e lo stesso ideale di Pace, divenissero ritualità e stanca ricorrenza.
Quando, qualche tempo dopo, disse “C’è stato chi ha detto che la Marcia Perugia-Assisi era così bella che è irripetibile. Ma come non correre il rischio di farne di meno belle se esse devono adempiere ad un compito così importante?” si riferiva alle Marce specifiche “contro la guerra” che lui stesso organizzò in alcune città (Roma, Bologna) e in molti centri della Toscana e dell’Umbria. Erano le iniziative locali messe in campo dalla Consulta italiana per la pace, guidata dallo stesso Capitini, che riuniva e collegava le principali associazioni pacifiste di allora, così come oggi fa la Rete italiana Pace e Disarmo. Fu in quell’occasione che Capitini scrisse “Una marcia non è fine a se stessa, produce onde che vanno lontano”, e in qualche modo quelle onde sono arrivate fino a noi.
Oggi marce e manifestazioni non sono più una novità. Hanno senso solo se legate ad un obiettivo preciso, ad una campagna in atto, a mobilitazioni specifiche. Celebrazioni rituali, retoriche, autoreferenziali, ripetitive, andrebbero fuori dal tracciato della nonviolenza attiva, innovativa, trasformativa, che ci è stata tramandata proprio dal pensiero capitiniano.
“Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari, non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Sono convinto che oggi il settore R&S, ricerca e sviluppo della nonviolenza, debba fare grandi passi in avanti e non debba fermarsi alle ormai tradizionali risorse”. Sono parole di Alexander Langer, che scrisse per un congresso del Movimento Nonviolento, nelle quali ci riconosciamo pienamente e di cui vogliamo fare tesoro.
Per questo a noi sembra che il modo migliore per ricordare la Marcia del 1961, e ringraziare Aldo Capitini, sia quello di proseguire e rafforzare le Campagne nelle quali siamo impegnati, per la riduzione delle spese militari, per gli interventi civili di pace nei conflitti in corso, per la messa al bando delle armi nucleari, per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.
Tra le varie polemiche giornalistiche, c’è stata in questi giorni anche quella tra Boldrini e Feltri (padre e figlio). Non voglio entrare nel merito, ma dico solo che sto dalla parte di Laura Boldrini, che non ha offeso nessuno, ma gli è stato impedito di esprimere il proprio parere su quella testata.
Poi, più o meno con il passaggio di direzione da Lucia Annunziata a Mattia Feltri, non ho più avuto accesso. Chiuso, tagliato, finito. Senza nessuna spiegazione, senza nessuna risposta alle mie molteplici richieste di chiarimento: ho dato fastidio a qualcuno? I miei scritti antimilitaristi non piacevano più? Le opinioni del presidente del Movimento Nonviolento erano diventate inutili? Fatto sta che sono stato “licenziato” senza giusta causa e senza comunicazione alcuna dalla direzione di Feltri figlio.
Peccato, ora non ho nemmeno la soddisfazione di togliere la mia collaborazione in solidarietà con Laura Boldrini, come hanno fatto Luca Paladini (i Sentinelli) e Barbara Collevecchio (psicologa junghiana). Vabbè, chi volesse continuare a leggermi lo può fare sul mio blog personale e su Azione nonviolenta.
Ad un mese dalla Perugia-Assisi del 7 ottobre 2018 è bene fare qualche considerazione su come sta proseguendo la nostra marcia …
La grande partecipazione all’iniziativa, nel cinquantesimo anniversario della morte terrena di Aldo Capitini, ideatore e promotore della prima marcia, ha confermato la necessità per il più vasto movimento per la pace di avere luoghi di incontro e azione comuni. La Perugia-Assisi è stata storicamente, proprio grazie alla prima edizione capitiniana del 1961 (che doveva essere un “unicum”) e alla sua ripresa dopo 17 anni, nel 1978 per volere di Pietro Pinna e del Movimento Nonviolento, la vetrina nella quale il pacifismo italiano espone la propria immagine e le proprie proposte al paese. La marcia, infatti, non è la passeggiata per stare bene con gli amici, non è il corteo per contare se si è in tanti, non è la processione per rinnovare una tradizione, ma è il momento, forse unico, in cui l’opinione pubblica può vedere il movimento per la pace riunito, riconoscerlo e valutare la sua capacità di dialogo con la politica e le istituzioni.
La marcia del 2018 non aveva un obiettivo specifico, unitario, definito, una campagna unificante da proporre, e questo è certamente un errore. Gruppi, movimenti, reti, hanno saputo positivamente esprimere le tante iniziative in corso, ma non si è riusciti a parlare con voce unica. E’ stato un coro polifonico, dal quale comunque è emersa una tematica prevalente, riferita all’attualità politica: l’immigrazione. Gli slogan più diffusi erano “ponti, non muri” e “porti aperti, non confini”, a significare che la marcia di fatto ha avuto anche un carattere antigovernativo. Le 70.000 persone partecipanti (questo il numero più vicino alla realtà) hanno saputo esprimere una grandissima energia, una partecipazione vivace e consapevole, arricchita dalla notevole presenza di giovani e giovanissimi; è mancato però il contenitore dove riporre e valorizzare tanta ricchezza; la domanda espressa non ha ancora trovato una risposta in grado di indirizzare e dare sbocco politico.
I due appelli “ufficiali” letti al termine della marcia, non hanno saputo interpretare nemmeno ciò che la marcia aveva comunque espresso, e non hanno saputo dare nessuna indicazione pratica sul “dopo”. L’appello “Nessuno deve essere lasciato solo!” è una dichiarazione di impotenza: “cerchiamo assieme le soluzioni dei problemi che non sono ancora state trovate e intraprendiamo nuove iniziative per attuarle“, concludendo con l’esortazione “Miglioriamo i nostri pensieri!“. L’altro appello “Il manifesto della cura” fornisce indicazioni ancor più vaghi, inafferrabili: “trovare la clorofilla spirituale che tiene alla ricerca delle cose buone con un pensare sensibile e un sentire limpido“. Evidentemente c’è bisogno di ben altro, e per fortuna i marciatori si sono dimostrati molto più avanti della marcia stessa. Dal meeting per la pace che si è svolto nei giorni precedenti la Marcia, a cura della Rete della Pace, sono emerse pratiche, esprienze e progetti che possono andare a costituire quella Agenda della pace di cui tutti i marciatori hanno sentito il bisogno: –taglio delle enormi spese militari -uscita dal programma di acquisto degli F35 -messa al bando delle armi atomiche -riconversione civile dell’industria bellica -stop all’esportazione di armi che creano morte, migrazioni forzate e profughi che fuggono dalle guerre. I progetti per ricostruire una politica di pace e giustizia sono contenuti nella campagna “Un’altra difesa è possibile”: spostamento delle risorse dal bilancio militare alla difesa civile, non armata e nonviolenta, per i corpi civili di pace, la protezione civile, il servizio civile universale, un Istituto di ricerche per il disarmo.
La priorità è convergere sempre di più su obiettivi comuni, riconoscere la necessità di una campagna coordinata, rafforzare una Rete della pace che sappia dare un senso politico unitario al lavoro che tantissimi fanno sui territori. Solo così la prossima Marcia, magari autoconvocata, proprio perchè di tutti e per tutti, avrà un senso.