«Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». Sta tutto qui, in questa frase della scrittrice Christa Wolf, il senso profondo della ricerca e della proposta nonviolenta come alternativa alla guerra.
Sul piatto tragico della storia c’è la questione della “difesa”, l’urgenza di salvare quante più vite possibili insieme alla necessità di fermare l’esercito invasore. Gli aggrediti non possono fare altro che usare gli strumenti che hanno a disposizione (armati o non armati), ma noi dobbiamo perseguire le vie efficaci del “cessate il fuoco”, sapendo che i mezzi che si usano prefigurano il fine che si raggiungerà. È Gandhi a parlare chiaro: «Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto». La necessità, anzi il dovere della difesa di un popolo aggredito è fuori discussione. Ma come attuare una difesa efficace e che salvi la vita oltre che i valori di libertà, democrazia, e le infrastrutture stesse di un paese, è la risposta che cerchiamo.
Il dilemma del Novecento si è consumato tra “Mai più Hiroshima” (fermare le armi) e “mai più Auschwitz” (fermare i carnefici). La nonviolenza ha la forza, la capacità, gli strumenti per fermare armi e carnefici? Da almeno un secolo ci sta provando, immergendosi nella storia e sperimentando il metodo nonviolento per la risoluzione dei conflitti. Lo stesso Gandhi nel pieno della seconda guerra mondiale dice che «la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà. Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi» e nel 1938 propone alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo».
Alle fallimentari esperienze storiche dei blocchi militari contrapposti sono stati concessi decenni di “prova”, mentre alla nonviolenza si chiedono risultati immediati e la si boccia se non offre soluzioni miracolose. Ma basterebbe un minimo di conoscenza storica per sapere vedere nelle pieghe del secolo i successi del metodo nonviolento là dove applicato con rigore su piccola o larga scala. Oltre ai classici lavori dei teorici della nonviolenza Gene Sharp o di Jacques Sémelin, lo studio di scienze politiche della Columbia University condotto sulle resistenze civili e armate dal 1900 al 2000 nel mondo ha dimostrato che sono state le prime ad avere più successi, rispettivamente il 59% contro il 27% nelle lotte interne anti-regime, il 41% contro il 10% in quelle contro l’occupazione di un paese o per l’autodeterminazione, e ancora il metodo nonviolento detiene il monopolio dei successi nell’affermazione delle lotte contro l’apartheid e per i diritti civili (mentre nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta zero vittorie e quella violenta l’esile percentuale del 10%). Dunque, la nonviolenza, quando applicata seriamente, e per fini di democrazia, giustizia e libertà, funziona.
Alexander Langer, il profeta/politico della nonviolenza europea aveva un programma preciso: «I movimenti per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti», con tanto realismo politico che lo portava a riconoscere che anche la nonviolenza può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo: «Un fallimento di un’azione di pace lascia però meno macerie di un riuscito intervento militare».
“Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. Eppure Gandhi è considerato, giustamente, il padre della nonviolenza moderna perché ne ha fatto un metodo di lotta politica contro le ingiustizie, per la libertà, la pace.
L’Assemblea generale dell’ONU ha indetto la Giornata Internazionale della Nonviolenza nel giorno della nascita di Mohandas K. Gandhi, chiamato il Mahatma, la grande anima. Se da un lato questa ricorrenza ha contribuito alla divulgazione del messaggio della nonviolenza “anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica”, dall’altro si corre il rischio – ogni anno di più – della vuota commemorazione, della ritualità ineffettiva, per dirla con una parola, della retorica.
Per le amiche e gli amici della nonviolenza è un giorno di festa, ma soprattutto di riflessione, autocritica, a partire dall’eredità politica e spirituale di Gandhi, eredità che si misura nella stretta connessione tra ideali della nonviolenza, sperimentazione delle tecniche e programma costruttivo. Nessuno di questi aspetti può essere vissuto autenticamente – è l’insegnamento del Mahatma – senza gli altri.
E allora: come stiamo contribuendo oggi al programma della nonviolenza, allo sviluppo sempre creativo della sua teoria e prassi? Se è vero che la nonviolenza è insieme “antica come le colline” e “novità rivoluzionaria” sta a noi andare avanti, scegliere quali direzioni prendere per la trasformazione nonviolenta della nostra società.
“Il mio campo è l’azione, e io faccio ciò che comprendo essere il mio dovere, in accordo con le mie possibilità e ciò che sopraggiunge lungo la mia strada”. Ciò che ci è venuto incontro in questi ultimi anni (la crisi climatica, l’impennata del riarmo internazionale, la pandemia) ci impone di allargare il campo d’azione e moltiplicare le possibilità di agire concretamente con la nonviolenza.
Per noi la nostra Festa del 2 ottobre è la valorizzazione e il rilancio dell’impegno quotidiano dei nostri gruppi territoriali, della rivista Azione nonviolenta, della promozione del Servizio Civile Universale, del nostro approfondimento dei temi della memoria e dell’ecologia. Se queste tante iniziative trovano un collante internazionale nella nostra partecipazione attiva alla War Resisters International (l’Internazionale dei resistenti alla guerra), di cui quest’anno ricorre il Centenario, in Italia trovano forza nella Rete italiana Pace e Disarmo.
È questa oggi la Rete più ampia e matura delle associazioni pacifiste, disarmiste, nonviolente, ambientaliste, culturali, sindacali e del volontariato, che ha raccolto l’eredità gandhiana della nonviolenza politica organizzata e quella capitiniana della Consulta italiana per la Pace nata dopo la Marcia Perugia-Assisi del 1961, promuovendo un programma costruttivo le cui gambe sono Campagne con obiettivi al passo coi tempi, concreti e precisi: l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta, la riduzione delle spese militari, il blocco all’export di armamenti verso Paesi in conflitto e che violano i diritti umani, la ratifica italiana del Trattato di messa al bando delle armi nucleari, il finanziamento degli interventi civili di pace presenti nei paesi in conflitto.
Se si ha chiaro che queste campagne e obiettivi sono il punto di arrivo comune, slogan e iniziative generiche lasciano il posto alla forza del pensiero e della pratica della nonviolenza attiva. Ci pare questa la modalità persuasa di celebrare la Giornata internazionale della nonviolenza. È questa la nostra “marcia collettiva”, non di un solo giorno, ma dei giorni che verranno, per un futuro di pace e disarmo per tutti.
Non ho niente contro il signor Francesco Paolo Figliuolo. Anzi, sono sicuro che sia una brava persona, preparata, competente. Non ho niente nemmeno contro i generali in quanto tali. Ve ne sono sicuramente tanti di eccellenti e capaci. Da antimilitarista e nonviolento non ce l’ho con i militari. Ce l’ho con il militarismo. Ed è questo che mi preoccupa nella scelta del generale Figliuolo come commissario straordinario all’emergenza Covid. Egli viene scelto come comandante nel campo della logistica militare e per aver riorganizzato la “sanità con le stellette” con task force mobili e ospedali da campo. In buona sostanza il governo militarizza il piano vaccinale, riconoscendo alle forze armate maggior efficacia rispetto alla protezione civile, cui istituzionalmente dovrebbero essere affidati compiti primari di tutela della comunità nazionale: “previsione e prevenzione dei grandi rischi, previsione e prevenzione dei rischi naturali e antropici”.
A questo punto mi chiedo cosa paghiamo a fare la Protezione Civile, se quello che dovrebbe fare viene poi appaltato ai militari. I compiti affidati al commissario all’emergenza Covid dovrebbero essere svolti dal Dipartimento della Protezione Civile, riorganizzato proprio il primo febbraio 2021, e che da pochi giorni ha un nuovo Capo, Fabrizio Curcio.
La spiegazione è molto semplice: il Bilancio del Ministero della Difesa è di oltre 26 miliardi; il bilancio del Dipartimento della Protezione civile è di soli 6 miliardi. Con 20 miliardi in più all’anno non è difficile capire perché il sistema militare prevalga (non solo nel settore delle “armi”, sua prerogativa specifica, ma anche nelle funzioni “civili”, sua funzione secondaria).
Mi verrebbe da dire che sarebbe meglio far funzionare bene le strutture civili che già abbiamo, anziché affidarle ai militari che hanno un’altra missione. Sottotraccia c’è l’idea che la logistica affidata alla catena civile (Governo, Regioni, Comuni) non funzioni, mentre affidata al sistema militare (per definizione non democratico) sia più efficiente. Ma qui sorge un problema non da poco se a pensarlo è il presidente del consiglio … (i militari costituzionalmente sono al servizio del paese, non al comando).
Da tempo come nonviolenti chiediamo, con la nostra Campagna “Un’altra difesa è possibile”, che venga istituito e finanziato un Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta, con fondi adeguati per coordinare tutte le politiche di difesa civile della popolazione, pandemie comprese.
Ora, forse, si capisce meglio il senso politico, l’attualità e l’urgenza della nostra proposta.
Affidare un piano di emergenza civile ad un generale dell’esercito, per gestire la sanità pubblica con la logica della sanità militare, è una visione politica mascherata da scelta tecnica. Non mi piace.
La prima nei sobborghi di Liverpool, dal 1940 al 1960. Giovane ribelle, studente svogliato, capo banda. La seconda, dal 1961 al 1969, in volo nell’iperspazio musicale beatlesiano, unico e irripetibile. La terza, dal 1970 al 1975, carriera solista, avanguardia, sperimentazioni, provocazioni. La quarta, dal 1976 al 1979, il ritiro, la vita domestica, la riconciliazione con se stesso e il mondo. La quinta, nel 1980, il ritorno alla musica, alla creatività, ma senza il tempo di fare nuovi progetti. Con cinque colpi, il sogno finisce.
Del Beatle Lennon sappiamo tutto; sull’artista, il musicista, il personaggio, sono state scritte biografie e montagne di libri. Oggi, nel quarantesimo della sua morte violenta, voglio tracciare un profilo del suo impegno politico per la pace. John Lennon è nel pantheon della nonviolenza.
Al di là dei suoi meriti o demeriti, della coerenza o incoerenza, dei suoi valori o disvalori, al di là della sua vita pubblica e personale, è ciò che ha rappresentato che ne fa di lui un mito. Dalle sue canzoni e dalle sue azioni politiche, il movimento mondiale pacifista ha preso forza, impulso, coscienza. La musica di Lennon è la colonna sonora di intere generazioni che si sono messe in cammino per la pace. Ha composto Imagine, inni come All You Need Is Love, Give peace a chance, Happy Xmas (war is over), Mind Games che sono diventati patrimonio del movimento. Lennon fa dichiarazioni contro la guerra del Vietnam, contro l’industria bellica, le spese militari, la politica imperialista, partecipa attivamente al movimento per la pace, anche con sostanziosi finanziamenti.
Quando si è cimentato come attore in una pellicola non musicale, ha interpretato la parte del soldato semplice Gripweed, nel film del 1967Come ho vinto la guerra, di Richard Lester: una commedia surreale e un po’ sconclusionata, ma dal sapore fortemente antimilitarista, di rifiuto del mondo militare e della guerra, dove John incarna una sorta di soldato obiettore.
La prima trasmissione televisiva in mondovisione via satellite andò in onda il 25 giugno 1967, 350 milioni di spettatori. La Gran Bretagna si affidò ai Beatles, che presentarono l’inedito All You Need Is Love, un brano pacifista composto da John appositamente per quell’occasione.
Il mondo cambia nel 1968. C’è il maggio francese, i carri armati a Praga, gli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy. I Beatles vanno in India a meditare, al ritorno John compone Revolution 1, dove fa professione di nonviolenza, incurante delle critiche della sinistra radicale.
Ma è il 1969 l’anno della sua campagna mondiale per la pace.
Dopo il matrimonio con Yoko, il 20 marzo, il viaggio di nozze diventa un’occasione per promuovere la pace nel mondo, inventando il bed in: dal 25 al 30 marzo 1969 in una camera da letto d’albergo, la numero 702 dell’Hilton di Amsterdam, lui e Yoko, in pigiama, a rilasciare interviste a giornali di tutto il mondo sul tema della pace.
Dopo Amsterdam, John e Yoko il 31 marzo vanno a Vienna per una conferenza stampa, dove lanciano il “baghismo”, una forma di comunicazione totale; si rinchiudono all’interno di un sacco (bag), e da lì parlano con i giornalisti, senza essere visti: non vogliono essere giudicati dal colore della pelle, dal sesso, dalla lunghezza dei capelli, dall’abbigliamento, dall’età, ma solo dal messaggio che portano: la pace. Il bed-in ha un enorme successo mediatico e così viene ripetuto dal 26 maggio al 2 giugno 1969 nella suite 1742 del Fairmont Queen Elizabeth Hotel di Montréal. È lui stesso a spiegarne il senso: “I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia: non soltanto nelle notizie ma anche in qualsiasi altro dannato film; sempre e continuamente guerra, guerra, guerra, uccidere, uccidere, uccidere. Così ci siamo detti: Mettiamo in prima pagina un po’ di pace, pace, pace, tanto per cambiare”.
Lennon è l’unico Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico a restituire il titolo Mbe alla Regina per protestare contro il coinvolgimento dell’Inghilterra nel commercio mondiale delle armi. Quando l’aveva ricevuto nel 1965, con gli altri tre Beatles, aveva dichiarato: Gran parte delle persone che fanno vanto di aver ricevuto il rango di Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico, sono persone premiate per il loro eroismo durante la guerra, per aver ucciso delle altre persone… Noi riceviamo l’onorificenza perché intratteniamo e divertiamo il pubblico. Penso che ce la meritiamo di più.
Il 25 novembre 1969 restituisce la medaglia con queste poche righe, che si concludono con una delle sue micidiali battute sarcastiche: Restituisco questo Mbe per protesta contro il coinvolgimento britannico nell’affare in Nigeria-Biafra, contro il nostro sostegno all’America in Vietnam e contro la discesa di Cold Turkey nelle classifiche.
Per fare gli auguri di Natale 1969 fa riempire 12 delle maggiori città del mondo (New York, Los Angeles, Toronto, Roma, Atene, Amsterdam, Berlino, Parigi, Londra, Tokyo, Hong Kong e Helsinki) con giganteschi manifesti con la scritta War is over (“la guerra è finita, se tu lo vuoi”, firmati “con amore, John e Yoko, da NY”).
Il 10 aprile 1970 viene annunciato lo scioglimento ufficiale dei Beatles. John non se ne cura, non commenta, è troppo impegnato nella sua campagna pacifista, ed è già proiettato oltre.
La militanza attiva contro la guerra e la sua preparazione divenne il chiodo fisso di Lennon. Una delle sue canzoni/manifesto è nata nel 1971 come brano di protesta contro la guerra in Vietnam ed è successivamente diventata tra i più noti classici natalizi del mondo, partorita dalla sua fantastica capacità creativa: Happy Christmas (War is over) – Buon Natale (la guerra è finita).
E così questo è il Natale (la guerra è finita) / per i deboli e per i forti (se lo vuoi) / per i ricchi e per i poveri (la guerra è finita) / il mondo è così sbagliato (se lo vuoi) / e così buon Natale (la guerra è finita) / per i neri e per i bianchi (se lo vuoi) / per i gialli e per i neri (la guerra è finita) / fermiamo tutte le guerre (adesso).
Nell’aprile del 1973 John Lennon convoca una conferenza stampa e si dichiara ufficialmente ambasciatore di Nutopia, un “paese concettuale” senza confini, senza passaporti, senza religioni. La bandiera di Nutopia è un fazzoletto bianco, e l’inno internazionale è inciso nell’album Mind Games: una traccia muta con 5 secondi di silenzio. John prende molto sul serio l’impegno per Nutopia. Per diventare cittadini di Nutopia bisogna aderire alla sua Costituzione, che è il testo della canzone Imagine (Immagina che non esistano frontiere, niente per cui uccidere o morire). Tutti i cittadini di Nutopia sono suoi ambasciatori nel mondo. L’ambasciata di Nutopia è al numero 1 di White Street a New York, e John chiede con una lettera ufficiale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di riconoscere il paese di Nutopia. Non riceverà risposta.
John Lennon era un visionario, con uno sguardo proiettato nel futuro. La sua visione nonviolenta era molto chiara: “Dobbiamo imparare dai metodi utilizzati da Gandhi e da Martin Luther King. La gente ha già il potere; tutto quello che noi dobbiamo fare è prenderne coscienza. Alla fine accadrà, deve accadere. I giovani hanno speranze perché sperano nel futuro e se sono depressi per il loro futuro allora siamo nei guai. Noi dobbiamo tenere viva la speranza tenendola viva fra i giovani. Io ho grandi speranze per il futuro”.
È morto l’8 dicembre del 1980, ammazzato con cinque colpi di pistola. Un fan squilibrato, si è detto. L’inchiesta venne chiusa troppo in fretta, ma molti di noi pensano che dietro all’assassinio ci sia stato un complotto dei servizi segreti per eliminare un leader troppo scomodo. Al suo funerale c’era una folla incontenibile, avvolta nella sensazione che il sogno era davvero finito. Lo sparo di un “folle” e un funerale imponente: proprio com’era accaduto per il Mahatma Gandhi, per John Fitzgeral e Bob Kennedy, per Martin Luther King. Quello che resta oggi è soprattutto nella sua immagine, nel volto di John con lo sguardo ironico e malinconico, dal quale scaturiscono musica, parole ed energia dispensate a tante generazioni di ieri, di oggi e di domani.
Di John Lennon artista si è detto e scritto tutto il possibile. Abbiamo a disposizione una mole enorme di materiale documentale: audio, video, libri, foto. Ogni sua canzone è stata studiata, analizzata, sviscerata. Della sua musica, che tanta influenza ha avuto su molte generazioni in tutto il mondo, dieci anni con i Beatles e dieci da solista, sappiamo tutto.
Ma oggi per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, preferisco concentrarmi sulla sua persona, sulla figura di figlio, di marito, di padre, di amico, di visionario, con quel suo volto dallo sguardo ironico e malinconico.
La vita di John è una parabola della nonviolenza.
Nasce a Liverpool il 9 ottobre del 1940 mentre era in corso sulla città un raid aereo nazista della seconda guerra mondiale. Di secondo nome, dopo John, fa Winston, una dedica al primo ministro Churchill, considerato dalla madre il paladino della libertà.
Il padre, mentre John nasce, non c’è, si è imbarcato su una nave come cameriere. Sarà la madre, Julia, che divorzierà poco dopo dal padre assente, a crescere John da sola. A soli 5 anni John viene allontanato dalla madre, che non è in grado di mantenerlo ed educarlo, e viene affidato alla zia Mimi, con la quale trascorre tutta l’adolescenza. Un’adolescenza turbolenta, con pessimi risultati scolastici: John è uno spirito libero, indipendente, creativo, scostante, ribelle. A 17 anni, quando sta riallacciando il rapporto con la mamma Julia (donna libera, fuori dagli schemi, ingenua, solare), John assiste all’incidente mortale: Julia viene falciata sulla strada, mentre si allontanava dopo essere andata a trovare il figlio. Un dolore immenso, lacerante, che lascerà un segno indelebile nell’anima di John: “”Ho perso mia madre due volte. Una volta da bambino a cinque anni e poi ancora a diciassette. Mi diede molta, molta amarezza. Avevo appena iniziato a ristabilire una relazione con lei quando fu uccisa. Il dolore più grande è non essere desiderati, renderti conto che i tuoi genitori non hanno bisogno di te quando tu hai bisogno di loro. Quando ero bambino ho vissuto momenti in cui non volevo vedere la bruttezza, non volevo vedere di non essere voluto. Questa mancanza di amore è entrata nei miei occhi e nella mia mente“.
L’adolescente John reagisce nel modo più facile. Butta il dolore fuori da sè e lo scarica sugli altri. Diventa un bullo. È un ragazzo proletario di periferia. Attaccabrighe, provocatorio, cinico, beffardo, anche se simpatico, burlone, geniale, comico.
L’unica cosa che lo rende docile, è la sua fantasia. Scrive, disegna, dimostra un talento raro. E poi la chitarra che gli regala la zia Mimi, con la quale strimpella le note di banjo che gli aveva insegnato la madre Julia. Diventa un leader, un capo naturale. Arruola Paul, Stuart, George, Pete e poi Ringo. Fa strage di ragazze, e adora canzonare i disabili. Politicamente scorrettissimo, diremmo oggi. Un teddy boy, come si diceva allora.
John fonda i Beatles, e dal 1962 in poi, con Brian Epstein, inizia la storia travolgente. Lui è il capo, ma è instabile, insicuro, e si lascia travolgere. È il primo Beatle a sposarsi, con Cynthia Powell, ma il matrimonio viene tenuto segreto, per non turbare i fan; subito dopo nasce il loro figlio Julian, ma John, beatle a tempo pieno, non ha il tempo né la maturità per fare da padre. Julian ha appena due anni quando John scrive e grida al mondo intero Help! “Aiutami se puoi, sto male […] Aiutami a rimettere i piedi per terra” […] “Quanto è cambiata la mia vita, la mia indipendenza si è trasformata in confusione”. Il successo è mondiale, sempre più vertiginoso, vorticoso, persino rovinoso per le personalità dei quatro ragazzi. Tentano la fuga nella meditazione, in India, ma ben presto anche questo si rivela un fallimento. Capita perfino che tornando in Inghilterra John si “dimentica” della moglie e la lascia giù dal treno. È l’inizio della fine. Si butta nel mondo psichedelico, cade nelle dipendenze, e John si perde. Il sogno finisce, i Beatles si sciolgono e si dividono. Resta di nuovo solo, subisce l’ennesimo rifiuto. Ma questa volta sulla sua strada trova la seconda musa ispiratrice. Dopo la madre Julia, incontra l’amante Yoko. È una seconda ripartenza. Con la nuova moglie/madre gli sembra di rinascere. Ritrova anche l’ispirazione musicale, sforna nuovi capolavori, trova l’impegno politico, radicale, la militanza per la pace, lascia Londra per stabilirsi a New York. Ma ancora una volta è la confusione che prevale sulla stabilità.
John capisce che ha bisogno di un lavoro profondo, dentro di sè questa volta. Una rivoluzione interiore prima che politica. Yoko lo lascia, anzi, lo caccia via, fino a che non ritroverà se stesso. John attraversa il deserto. È il periodo di Los Angeles, la caduta in fondo al baratro, il lost weekend, come lo chiamò, perdersi per ritrovarsi. Fu più di un anno esagerato, di baldoria, perdizione e immaturità, un vortice di depressione e ubriachezza; John riuscì a tirare fuori il peggio di sé, un adolescente in fuga dalle responsabilità. Toccò il fondo.
E poi, quindi, l’inizio della risalita. Il ritorno a casa, da Yoko, la disintossicazione, l’analisi profonda, il concepimento del figlio Sean, la ritrovata serenità della vita casalinga, la consapevolezza del ruolo di padre e marito. È il periodo migliore di John, la riconciliazione con se stesso e con il mondo. La scelta della nonviolenza, politica e personale. Le letture, la nuova ispirazione musicale, la voglia di riprendere a suonare, di comporre, di nuovi rapporti con i vecchi amici (prende anche in considerazione l’idea di fare qualcosa di nuovo con i Beatles) e i fan. Si scopre maturo, consapevole, pacificato, abbraccia la nonviolenza. Troppo bello per essere vero: l’8 dicembre 1980 arrivano quei cinque colpi di pistola fatali che interrompono per sempre la sua storia. Una violenza mortale che lo rende immortale. John è morto, viva John.
Da Baronetto a Tricheco, non ha mai nascosto i suoi sentimenti profondi, le fragilità, le solitudini, ma anche gli slanci, gli amori, i sogni. Sincero fino in fondo, si è sempre mostrato per quello che era, senza ipocrisie, raccontando anche i lati più oscuri e più veri della sua anima.
La parabola è questa: un ragazzo di strada del dopoguerra, talentuoso ma pieno di rabbia perchè non ha conosciuto l’amore dei genitori, si trova sbalzato sulle vette del successo mondiale, ricco e famoso, non ha la possibilità di conoscersi, vive in collera fino a perdersi, per poi riconoscersi grazie all’amore ritrovato, all’impegno per la pace, alla paternità; con la nonviolenza arriva finalmente alla serenità interiore e alla maturità sociale. Avrebbe potuto vivere sugli allori, recitare la parte dell’ex beatle, o ritirarsi a vita privata; invece ha scelto di mettersi in gioco fino in fondo, usare la sua fama al servizio della causa pacifista, coinvolgersi nel movimento contro la guerra.
È questo il John Lennon ottantenne che festeggiamo oggi. Una strada in salita, ma che arriva alla meta dell’amore. Un percorso di conversione dalla violenza alla nonviolenza, con tappe ben definite. Dal grido di disperazione in Mother (madre, io ti volevo ma tu non mi volevi; padre io avevo bisogno di te, ma tu non di me) all’Eroe della classe operaia (non bisogna fidarsi dei sogni che possono trasformarsi in incubi); dalla preghiera di God (il sogno è finito, credo solo in me); alla scoperta di Love (l’amore è una forza insopprimibile), fino ad Imagine, il suo manifesto per il mondo unito, concettuale e spirituale che ha sempre cercato e alla fine raggiunto.
(Prima parte, segue; la seconda parte sarà pubblicata l’8 dicembre)