Primavera della Nonviolenza, la preghiera del Papa , l’utopia di Lennon

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Il Papa ha affidato le sue intenzioni alla “Rete mondiale di preghiera”. Una intenzione al mese, per tutto l’anno. Aprile è il mese dedicato alla preghiera “Per una cultura della nonviolenza”.

In tutte le chiese cattoliche, durante le messe, si pregherà così: “Preghiamo per una maggiore diffusione di una cultura della nonviolenza, che passa per un sempre minore ricorso alle armi, sia da parte degli Stati che dei cittadini”.

Papa Francesco scrive correttamente “nonviolenza”, parola unica, come stabilito da Aldo Capitini per tradurre bene in italiano il “satyagraha” di Gandhi, la forza che è insita nella Verità. Nonviolenza, dunque, per usare le stesse parole di Francesco, come “stile di una politica per la pace”. Ora il Pontefice si augura che la cultura della nonviolenza (storicamente sperimentata e teorizzata da L. Tolstoj, M.K. Gandhi, K.A. Ghaffar Khan, M.L. King, e nella tradizione cattolica da Gesù, Francesco d’Assisi, e poi nei tempi moderni da Giovanni XXIII e Madre Teresa di Calcutta) si diffonda sempre più e per questo ha dato vita al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, per promuovere la pace in tutti gli ambiti dell’esistenza pubblica e sociale.

Ma la cultura della nonviolenza, per trovare spazio, deve contrastare la cultura della violenza, delle armi, della guerra.

È un programma impegnativo, che punta direttamente alla riduzione degli armamenti, dunque delle spese per la difesa, sia collettiva che personale. Meno armi per gli eserciti, meno armi nelle case. Sarebbe già un bel passo in avanti: un obiettivo politico realistico, non un’utopia irenica.

Le parole che il Papa ha usato nel video che accompagna l’intenzione di preghiera sulla Nonviolenza, sono ben ponderate: “ogni guerra, ogni scontro armato, finisce con l’essere sempre una sconfitta per tutti; anche nei casi di legittima difesa, l’obiettivo è la pace. Una pace duratura può essere solo una pace senza armi”.

Per capire il pieno e profondo significato delle scelte di preghiera del Papa, bisogna scorrere anche le altre intenzioni, mese dopo mese, e ne esce un mosaico che dà bene l’idea che Francesco ha della nonviolenza. Nel corso dell’anno si prega per gli educatori alla fraternità anziché alla competizione, per le vittime di abusi, per l’abolizione della tortura, per gli emarginati, per l’inclusione delle persone con disabilità. Il mese di novembre il Papa lo riserva alla preghiera per se stesso, per essere aiutato nella sua missione.

Passando dal sacro al profano, è significativa la coincidenza che esattamente 50 anni fa un altro leader pacifista, laico, scelse il mese di aprile per lanciare il suo messaggio nonviolento.

Era il primo aprile del 1973 quando John Lennon, in una affollatissima conferenza stampa a New York, annunciò la nascita di un paese concettuale, Nutopia: uno stato senza terra, né confini, né passaporti, senza esercito, solo persone, basato esclusivamente sulle leggi cosmiche. La bandiera di Nutopia è un fazzoletto bianco, e l’inno è una traccia muta con 5 secondi di silenzio. Lennon, come suo ambasciatore, chiese l’immunità diplomatica e il riconoscimento alle Nazioni Unite del paese di Nutopia e del suo popolo, formato da tutti coloro che vogliono farne parte.

C’è un filo culturale e spirituale che lega l’idea di Nutopia alla Rete mondiale di preghiera: la diffusione della cultura della nonviolenza, da John Lennon a Papa Francesco, oggi coinvolge credenti e atei, religiosi e laici.

Per Gandhi la preghiera è una forza di azione nonviolenta: “Credo che la preghiera silenziosa sia spesso una forza più potente di ogni atto. La preghiera è come ogni altra azione, porta frutto, che ce ne accorgiamo o no, e il frutto della preghiera sincera è assai più potente della cosiddetta azione. Propriamente compresa e applicata, la preghiera è lo strumento d’azione più potente”.

Le vie della nonviolenza sono infinite.

50 anni di Obiezione di coscienza

Intervista Mao Valpiana sulla campagna antimilitarista e nonviolenta

1) Il prossimo 15 dicembre saranno 50 anni dall’approvazione della prima legge per l’odc al servizio militare. Nonostante i suoi molti limiti – dal “tribunale della coscienza” dei militari che doveva giudicare la genuinità delle motivazioni dell’obiettore, alla “punizione” della durata del servizio civile più lunga rispetto al militare – credo che si sia trattato di una legge molto importante per il movimento per la pace. Sei d’accordo? Perché?

Pochi giorni dopo l’approvazione della legge, Azione nonviolenta (dicembre 1972) titolava “Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza”, con il sottotitolo “Chi per grazia sovrana verrà ammesso a compiere il servizio civile alternativo, dovrà pagarla con una ferma maggiorata di 8 mesi, rimanendo in più sempre soggetto a tutti gli effetti, quale «soldato distaccato», alla giurisdizione militare”. Per rendere ancor meglio il giudizio fortemente critico e negativo sull’impianto della soluzione legislativa, mantenendo l’attenzione sul punto decisivo della questione antimilitarista posta dall’essenza stessa dell’obiezione di coscienza, Pietro Pinna (l’estensore dell’articolo, presentato come editoriale non firmato), faceva questo passaggio:

Ecco quindi che, alla luce di questa logica, un Parlamento il quale doveva riconoscere il diritto, aperto a tutti, ad obiettare, ad atteggiarsi conformemente al ripudio di un modo politico retto su strutture di guerra, vota una legge che si traduce e serve al suo opposto, cioè a statuire il reato dell’obiezione di coscienza. Non c’è, ripetiamo, da farsi meraviglia di quest’esito, abnorme e logico insieme, da parte di un Parlamento composto di forze politiche che, dalla prima all’ultima, di destra e di sinistra, sono tutte concordi sul principio sommo (per il potere) della necessità dell’apparato di guerra”. In sostanza si dice che non viene riconosciuta l’istanza fondativa dell’obiezione, cioè la messa in discussione radicale della struttura dell’esercito, come strumento di guerra. Tuttavia, dopo le dichiarazioni di principio, si riconosce che la legge apre comunque uno spiraglio che dovrà essere utilizzato per ottenere altri risultati, passando dalla testimonianza degli obiettori in carcere, alle lotte per la costruzione e la gestione del servizio civile.

Ma pure in termini pratici, di lotta, questa legge-truffa può dar adito ad un processo positivo (…) Ora che la legge c’è e non offre che una alternativa mistificata, moltissimi giovani dovranno confrontarcisi e sciogliere senza rinvii il nodo della scelta”.

E infatti, furono proprio il Movimento Nonviolento ed il Partito Radicale – protagonisti della lotta e del digiuno per ottenere la legge – a fondare e sostenere la Lega degli Obiettori di coscienza, che dal 1973 in poi gestì la nascita e la crescita del servizio civile come pratica di impegno per il movimento pacifista dentro la società.

2) Quali sono stati gli effetti di quella legge sulla società italiana?

Il servizio civile, così come si è sviluppato in Italia e come lo conosciamo ancora oggi, è stato una “invenzione” degli obiettori stessi. Lo stato aveva predisposto un servizio civile nazionale unico, che immaginava nel corpo (allora militarizzato) dei pompieri, o vigili del fuoco. Gli obiettori rifiutarono, non rispondendo alla chiamata, e contrapposero invece un servizio civile diversificato, da attuarsi negli Enti del privato sociale (assistenziali, culturali, ambientali, sindacali, ecc.) che si convenzionavano con il Ministero della Difesa per accogliere gli obiettori nelle loro sedi diffuse su tutto il territorio nazionale. Dopo le prime resistenze da parte dell’amministrazione militare, passò e si diffuse questo modello di servizio civile, che presto divenne uno dei più avanzati d’Europa.

L’obiettore di coscienza (fino al 1972 considerato un avanzo di galera) in pochi anni divenne una figura riconosciuta che lavorava nel territorio a fianco degli ultimi. Enti o Associazioni importanti, come la Comunità di Capodarco, l’Istituto don Calabria, l’Ospedale Psichiatrico di Basaglia, accolsero per primi gli obiettori, e “sdoganarono” questa figura dandone un’immagine positiva.

Già nei primi anni ‘80 l’obiettore di coscienza copriva un ruolo importante, e anche gli Enti pubblici, come i Comuni, iniziarono ad utilizzare questa risorsa, riconoscendo di fatto la positività non solo del servizio civile, ma anche dell’obiezione di coscienza stessa, come opzione culturale.

3) La fine della leva obbligatoria è stata una vittoria per il movimento? Oppure l’esercito dei professionisti ha provocato una serie di conseguenze negative – a cominciare dall’aumento delle spese per gli armamenti – di cui ancora oggi vediamo (e paghiamo) le conseguenze?

La leva obbligatoria è un’invenzione napoleonica, che rispondeva alla concezione “moderna” della guerra su larga scala. Dopo la prima guerra mondiale (sostanzialmente ancora una guerra di posizione, giocata sulla conquista territoriale, da trincea a trincea) e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale (giocata prevalentemente sui bombardamenti aerei e sulle armi strategiche), cambia nei fatti anche la concezione della guerra stessa, sempre più sofisticata, sempre più tecnica, sempre più professionale. La leva popolare quindi ha un suo naturale decadimento, che lascia il posto al professionismo militare. Diminuisce il numero dei soldati, ma cresce la spesa. La sospensione dell’obbligo (cioè della schiavitù militare) è per noi certamente un fatto positivo per le singole persone, anche se questo non cambia di una virgola il male della struttura militare di preparazione e attuazione della guerra, che per certi versi diventa ancor peggiore.

4) C’è una “terza via” fra esercito di leva e dei professionisti?

La nostra prospettiva resta quella del disarmo unilaterale; quindi per noi la via è quella dell’abolizione degli eserciti.

5) Con la “sospensione” della leva obbligatoria, non si parla più di odc, che invece, a mio avviso, resta un valore da rilanciare. E senza scomodare don Milani, basta vedere quello che sta succedendo oggi nella guerra in Ucraina, con migliaia di obiettori, di cui però i grandi mezzi di informazione preferiscono non dire nulla. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo con te. L’obiezione di coscienza resta un caposaldo della nonviolenza. Prima ancora di fare del bene è importante non collaborare con il male, diceva il Mahatma Gandhi. I ragazzi russi e ucraini che rifiutano le armi (rischiando di persona, affrontando il carcere e il disprezzo), sono gli unici che si sottraggono alla guerra e prefigurano una via di pace. I mezzi di informazione di massa non ne parlano perché sanno che il loro esempio sarebbe contagioso (così come lo fu per molti ragazzi americani ai tempi del Vietnam). Ogni recluta può essere un obiettore di coscienza, ogni soldato un disertore. Dobbiamo aiutare e sostenere ogni singolo obiettore, dell’una e dell’altra parte: patrioti disarmati che non vogliono odiare la patria altrui.

6) Quella fiscale contro le spese militari poterebbe essere una campagna di obiezione da rilanciare oggi? (ovviamente assumendosene le responsabilità, come succedeva prima del 1972 per il militare)

Purtroppo il sistema tributario odierno, con la tassazione alla fonte, non permette più una vera e propria obiezione fiscale alle spese militari, come si poteva fare con la Campagna che mettemmo in atto dal 1981 al 1998. Tuttavia nella nostra proposta di legge per la Difesa civile non armata e nonviolenta (sostenuta dalla campagna Un’altra difesa è possibile), è prevista la possibilità dell’opzione fiscale, cioè la possibilità per il cittadino contribuente di scegliere se finanziare la difesa armata o la difesa nonviolenta. Dobbiamo impegnarci affinché questa prospettiva diventi politicamente realizzabile.

7) Dopo la manifestazione nazionale del 5 novembre, è ipotizzabile la ripresa di un movimento per la pace che possa contare su “grandi numeri”? Oppure dal 2003 (il momento pacifista “superpotenza mondiale”, come scriveva qualcuno) a oggi sono cambiate troppe cose e quella situazione non è più proponibile? Perché?

Portare più di 100.000 persone in piazza, coinvolgendo oltre 600 organizzazioni, è stato un risultato politico importante. Soprattutto perché la manifestazione del 5 novembre a Roma non è un fatto isolato, ma fa parte di un percorso che è partito da lontano, da quando – con l’Arena di pace e disarmo del 2014 – è iniziato il processo di costruzione della Rete italiana Pace e Disarmo che dà voce ad un movimento pacifista finalmente maturo (che non si accontenta di slogan o ritualità) che è anche un soggetto politico autonomo ed indipendente. La mobilitazione permanente in atto che ora si riconosce nel cartello “Europe for Peace”, ha l’ambizione di mettere in campo un movimento europeo che possa essere interlocutore di partiti, governi e diplomazie per la costruzione di una Agenda di pace. Il movimento pacifista è già maggioritario nell’opinione pubblica.

Mao Valpiana

Presidente del Movimento Nonviolento

Esecutivo di Rete italiana Pace e Disarmo

foto di riccardo lorenzi

Domande di Luca Kocci (Adista)

risposte di Mao Valpiana

Manifestare per la pace: dove, quando, come. Perché oggi non andrò al sit-in contro Mosca

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“Perché non partecipi alla manifestazione davanti all’ambasciata russa?”. Me lo sono sentito domandare più volte in questi giorni. Risposta numero uno: perché la condanna dell’aggressore l’ho già espressa dal 24 febbraio (anzi, dal 2014 in poi quando altri rifornivano di armi la Russia di Putin e noi denunciavamo la violazione dell’embargo da parte del governo italiano: andate a vedere chi c’era a Palazzo Chigi). Risposta numero due: perché ora è il momento della parte propositiva, cioè parlare a tutti i soggetti da coinvolgere nella realizzazione della Conferenza internazionale di pace.

Risposta numero tre: dovrei andare anche davanti all’ambasciata dell’Iran, della Turchia, dell’Egitto, dell’Afghanistan, e i compagni di manifestazione me li scelgo io: ai partiti che hanno votato tutti i bilanci dell’export militare, preferisco i movimenti e le associazioni che si sono battuti per la pace e per il rispetto dei diritti umani.

Ogni manifestazione è utile, se a favore della pace e contro la guerra; è sacrosanto condannare l’aggressore, ma oggi siamo in una fase politica più avanzata, che richiede proposte di soluzioni utili a fermare il massacro in atto per non vedere altri missili sui civili.

Detto questo, non voglio però esulare dalle domande di fondo che editorialisti e opinionisti stanno rivolgendo in questi giorni al movimento pacifista.

La nonviolenza è compatibile con la partecipazione alla guerra? Certamente no.

L’utilizzo delle armi per difendersi è lecito? Può esserlo, ma a determinate condizioni.

Sta tutta qui la problematica sulla legittimità della difesa di fronte ad un’aggressione.

Che la vittima (Ucraina) abbia diritto alla difesa contro il carnefice (Russia) è fuori discussione.

Il punto è quale tipo di difesa, con quali mezzi, con quale efficacia.

Partiamo dal fatto che ci sono diverse possibilità di difesa; non esiste solo la difesa armata, vi sono anche altre possibilità di resistenza civile, di difesa nonviolenta, di strategie non armate.

La difesa civile, non armata e nonviolenta (storicamente utilizzata in India da Gandhi contro il colonialismo inglese; in Sudafrica da Mandela contro l’apartheid; in Danimarca contro l’occupazione nazista e per la salvezza degli ebrei; in Cile contro la dittatura di Pinochet; in Polonia contro il regime di Jaruzelski; negli Stati Uniti da Martin Luther King per i diritti e contro la guerra in Vietnam) è efficace se adeguatamente preparata e preventivamente organizzata. Come la difesa armata, anche la difesa nonviolenta non si può improvvisare.

I movimenti nonviolenti, in tutto il mondo, lavorano a questo obiettivo comune: diminuire la capacità distruttiva della preparazione alla guerra, ed aumentare la capacità costruttiva della difesa nonviolenta. Questa è la strategia del transarmo: ridurre i flussi di denaro verso l’industria bellica a vantaggio di investimenti nella preparazione di una difesa non militare e nel rafforzamento delle istituzioni democratiche. Meno soldi per le armi, più soldi per la pace.

Ma se questo lavoro preventivo non è stato fatto, e anzi si è puntato tutto sulla difesa armata (come avvenuto in Ucraina che ora vuole entrare nell’alleanza militare della Nato), cosa si può fare quando arrivano i carriarmati dell’invasore? Resta davvero poco spazio per iniziative concrete di difesa civile. Ma se c’è anche un minimo spiraglio, questo va perseguito perché è l’unica possibilità per innescare un processo diverso da quello che prevede la guerra: colpo su colpo, in una spirale che si ferma solo quando una delle due parti viene annientata. E non è detto che a vincere sia sempre chi sta dalla parte giusta, perché la guerra solitamente la vincono i più forti che a volte sono quelli dalla parte sbagliata della storia.

E torno alle due domande iniziali. La nonviolenza gandhiana ci insegna che se l’alternativa è tra violenza e ignavia, è meglio scegliere la prima. Ma chiarisce anche che l’opzione preferibile, sempre possibile e prioritaria, è quella della nonviolenza del forte. Non usa mezzi termini il Mahatma: “Il valore assoluto è la nonviolenza, ma se devi peccare di ignavia di fronte al nemico, allora io ti dico che è meglio che tu prenda un fucile e gli spari in volto”. Il significato è chiarissimo: devi assumerti la responsabilità in prima persona. Non vuoi fare la scelta nonviolenta? Allora vai tu a combattere personalmente: fornire armi perché altri lo facciano al posto tuo è da vigliacchi. Pieno rispetto, dunque, per chi fa la scelta di difendersi con le armi, non spetta a noi giudicare. Ma da nonviolenti dobbiamo considerare la compatibilità dei mezzi (le armi, la guerra), con il fine (la difesa, la pace). Per questo in Ucraina abbiamo portato mezzi e sostegno a chi, pur sotto i missili gettati su Kiev, ha scelto e sta attuando la resistenza passiva, la difesa nonviolenta, come strategia concreta sulla quale costruire la pace giusta di domani.

Quale manifestazione nazionale per la pace?

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Una manifestazione di piazza per la pace? Benissimo. Ai leader di partito, politici, associazioni che si agitano e la invocano, suggeriamo di organizzarla con il titolo “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”.

La guerra c’è. È guerra mondiale. Le armi sono state costruite e consegnate agli eserciti. I missili sono stati lanciati. Le bombe sono state sganciate. Le città e le case sono state distrutte. I morti si contano a migliaia. Gli ordigni nucleari sono pronti al loro utilizzo.

Bisognava pensarci prima. Questa guerra è in corso e non saranno parole e striscioni a fermarla.

Bisognava lavorare per la pace in tempo di pace, bisognava fare politiche di disarmo anziché votare i bilanci militari. Bisognava non costruire le armi che oggi sparano. Bisognava sostenere le proposte preventive della nonviolenza, unica alternativa alla guerra.

Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo le guerre nel Golfo e nei Balcani, dopo le Torri Gemelle, dopo le guerra in Iraq e in Afghanistan, il tempo c’era per fare vere politiche di pace e disarmo. Ma è stato sprecato.

La strada da percorrere è già tracciata da tanti anni:

– Adesione al Trattato per la messa al bando della armi nucleari
– Approvazione legge istitutiva della Difesa civile non armata e nonviolenta
– Istituzione dei Corpi Civili Europei di pace
– Riduzione spese militari, restrizione sull’export di armi
– Istituto di ricerche sulla pace e risoluzione nonviolenta dei conflitti

Questo è il programma per una politica di pace che abbiano sempre proposto nel nostro calendario delle festività civili, inascoltato dalle istituzioni:

– Ogni 2 giugno, abbiamo chiesto di festeggiare “la Repubblica disarmata che ripudia la guerra”.
– Ogni 4 novembre, abbiamo invocato “Non festa ma lutto” per ricordare l’inutile strage.
– Ogni 25 aprile abbiamo rinnovato: “La Liberazione oggi si chiama disarmo; la Resistenza oggi si chiama Nonviolenza”.

Il movimento pacifista parlava alla politica, ma la politica aveva altre priorità e la pace è rimasta fuori dall’agenda dei partiti e del Palazzo.

La speranza però è ancora viva. Possiamo iniziare a disarmare oggi per costruire la pace di domani.

Se ci sarà un “mea culpa” e un’assunzione di responsabilità collettiva per iniziare concretamente a fare le politiche di pace che non si sono fatte nel passato, ben venga anche la manifestazione di piazza.

Nel frattempo, con la Rete italiana Pace e Disarmo continueremo a lavorare quotidianamente in particolare sostenendo gli obiettori di coscienza, i disertori, i renitenti alla leva, i nonviolenti e i pacifisti in Russia e in Ucraina, come abbiamo fatto con la Carovana di Pace “Stop The War Now”: sono loro che concretamente possono fermare la guerra.

Come facciamo dall’inizio della guerra, saremo presenti tutte le domeniche in Piazza San Pietro all’Angelus con le bandiere della nonviolenza per sostenere il magistero di Papa Francesco che ci ha chiesto di “fare di tutto per fermare la guerra”.

Nei giorni 21, 22, 23 ottobre parteciperemo alla mobilitazione dal basso, in tutte le città in cui siamo presenti, con la rete “Europe for Peace” verso una Conferenza internazionale di pace.

A chi è preoccupato, angosciato, disorientato per il pericolo di una deflagrazione mondiale della guerra in corso, e vuole “fare qualcosa” per fermarla, diciamo che ci rimane una sola strada, quella della nonviolenza: né un uomo né un soldo per la guerra, iniziamo spezzando il nostro fucile.

Cambiano i governi ma le spese militari aumentano sempre. Sabato in piazza per la pace

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Il Quotidiano Il Riformista il 21 luglio 2022 ha pubblicato questa intervista a Mao Valpiana, a pagina 2. La riportiamo integralmente.

Se i pacifisti fossero saliti al Quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, della delegazione avrebbe di sicuro fatto parte Mao Valpiana. Per la sua storia, per le battaglie condotte nel tempo. Presidente del Movimento non violento, membro dell’Esecutivo di Rete Italiana Pace e Disarmo, Valpiana è anche direttore della rivista Azione non violenta, fondata nel 1964 da Aldo Capitini. In una lettera aperta a Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri ed Emma Bonino, sostenitori dell’invio di armi all’Ucraina, Valpiana ha affermato che “Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva”. Una pratica che ha caratterizzato la sua vita. E che Valpiana rilancia nell’intervista. Guardando alla mobilitazione pacifista del 23 luglio.

1) Se i pacifisti fossero saliti al quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, che avrebbero detto al Capo dello Stato?

Be’, intanto l’avremmo ringraziato, essendo la nostra prima volta al Colle per una consultazione, come invece avviene per i partiti e le parti sociali, nonostante il movimento pacifista rappresenti gran parte dell’opinione pubblica italiana e abbia sempre cercato l’interlocuzione con la politica e le istituzioni. Poi avremmo iniziato il dialogo partendo da due punti fermi della nostra Costituzione, senza tenere fede ai quali non è possibile risolvere nessuna delle crisi in cui siamo precipitati: politica, sociale, economica, ecologica, persino culturale (e qualcuno dice anche antropologica). Il primo punto è il ripudio della guerra, sancito dall’articolo 11 della Carta. Il governo ha il dovere di essere conseguente e non può avallare nessuna politica che giustifichi la guerra “come risoluzione delle controversie internazionali”, dunque nemmeno le guerre degli altri. Il ruolo dell’Italia previsto dai Costituenti dev’essere quello di una “potenza di pace”, quindi tutti gli sforzi (e i conseguenti finanziamenti) vanno indirizzati a sostenere gli organismi internazionali (a partire dall’ONU) preposti a rapporti pacifici tra le nazioni. Questo non è un “mondo dei sogni”, ma dovrebbe essere il timone del governo del nostro Paese. Il secondo punto fermo è scritto nell’articolo 52 della Carta, “la difesa è una sacro dovere”. Non dice “difesa armata”, ma parla solo di “difesa” che viene affidata ai cittadini, e non ai militari. Dunque la domanda legittima da porre al Capo dello Stato sarebbe: quali sono i pericoli reali dai quali dobbiamo difenderci? E con quali mezzi? Quale politica deve attuare il governo per difenderci dalla emergenza climatica, dalla recessione, dalla disoccupazione, dalla fragilità ambientale? I veri nemici oggi sono la povertà crescente e le emissioni di gas serra: questi nemici si battono con politiche economiche ed energetiche lungimiranti, non con le nuove produzioni dell’industria bellica.

2) Per essersi opposti all’invio di armi all’Ucraina, i pacifisti sono stati accusati di essere al servizio di Putin. La stessa accusa che Di Maio ha rivolto a Conte. Come la mettiamo?

La mettiamo che anche su questo punto il movimento per la pace italiano ha le carte in regola. Altri, arrivati all’ultimo momento a ricostruirsi una verginità, forse molto meno. Noi abbiamo sempre denunciato e condannato il fatto che l’Italia e l’Europa vendessero armi sia alla Ucraina che alla Russia. L’abbiamo fatto nei decenni, non da oggi; ci sono i nostri dossier e le campagne a testimoniarlo. Lo facevamo anche quando il nostro paese vendeva blindati Iveco alla Russia di Putin, nonostante l’embargo e le sanzioni in vigore dopo la guerra del Donbass del 2014. Altri, che oggi fanno finta di essere pacifisti, con la Russia ci facevano gli affari. Noi siamo pacifisti, ma non utopisti. Anzi, il nostro pacifismo è molto concreto e pragmatico; ci opponiamo all’invio di armi perché riteniamo che altri e più efficaci dovrebbe essere gli aiuti e la solidarietà verso una popolazione attaccata e invasa, ma anche perché lo dice la Legge 185/90 che prevede il divieto di esportazione verso i Paesi in stato di conflitto armato, tant’è che il Consiglio dei Ministri ha dovuto applicare una deroga per la cessione delle armi all’Ucraina. L’iper realismo dell’attuale Ministro degli Esteri, divenuto estremista dell’atlantismo, lo ha portato a barattare la solidarietà verso l’Ucraina con il tradimento del popolo Curdo sacrificato in cambio dell’unità della Nato. Questo realismo io lo chiamo cinismo.

3) Le spese militari hanno battuto ogni record con il governo Draghi che ha alla guida del ministero della Difesa un esponente, Lorenzo Guerini, del Partito Democratico…

In tema di spese militari, ormai ogni governo polverizza il record precedente. Quest’anno il Bilancio del Ministero della Difesa sfiorerà i 26 miliardi di euro, cioè un +5,4% rispetto al 2021. Al di là del colore dei vari governi, l’Italia non ha avuto una contrazione delle spese militari negli ultimi anni ma anzi abbiamo visto una crescita molto rilevante legata soprattutto all’acquisto di nuovi armamenti, cioè spendiamo tanto per comprare nuovi cacciabombardieri, nuove navi, nuovi carri armati. E così torniamo a quanto dicevo prima: sono questi gli strumenti che come popolo ci fanno sentire più sicuri? È più utile avere in garage un F35 a capacità nucleare, o un Canadair per spegnere gli incendi in Sardegna? Su questo tema penso che il Partito Democratico viva una certa schizofrenia … da una parte c’è chi come Rosy Bindi dice “Inaccettabile aumentare la spesa militare, la pace non si fa con le armi; bisogna ripensare la funzione della Nato“, mentre dall’altra il Ministro Guerini dice che “l’aumento delle spese militari è un impegno da rispettare perché l’Italia deve dimostrarsi affidabile nei confronti dei suoi alleati della Nato”; sono due visioni antitetiche, e su questo il PD non è ancora riuscito a fare sintesi.

4) I pacifisti insistono molto sul principio della “neutralità attiva”. L’accusa è che in questo modo mettete sullo stesso piano l’aggressore – la Russia – e l’aggredito -l’Ucraina.

Chi dice questo è in malafede. Non c’è bisogno di scomodare Gandhi per saper distinguere la violenza di oppressione dalla violenza degli oppressi, la violenza di chi attacca dalla violenza di chi si difende. Tuttavia, se la nonviolenza condanna e combatte la violenza del carnefice (la Russia di Putin), essa però viene a rimettere in questione anche la violenza della vittima (l’Ucraina di Zelensky). Solidarizzare con le vittime non obbliga ad assumere il loro punto di vista, ma significa anche aiutarle a liberarsi dalla loro violenza.

Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni della nazione invasa non richiede automaticamente che si debba inviare armi o intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità come il popolo palestinese o quello curdo. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza e une escalation del conflitto. L’Ucraina ha deciso di intraprendere la via della difesa armata mobilitando tutti i cittadini maschi dai 18 ai 60 anni e, tra l’altro, imprigionando gli obiettori di coscienza. Crediamo che non sia questa la via da seguire, anche perché i risultati sul piano militare non si vedono … Occorre invece un salto di qualità che può essere fatto solo mettendo in atto la ratio della lotta nonviolenta che è quella di “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, ritirare tutte le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing” e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La “neutralità attiva” – che non è equidistanza – è ancorata al diritto internazionale con un effettivo impegno per la neutralità dell’Ucraina come parte del processo di distensione regionale e attivando un dialogo diretto tra le istituzioni europee, a partire dal Consiglio d’Europa, e la Federazione Russa, in una logica di sicurezza condivisa, di cooperazione e di promozione dei diritti umani e della democrazia

5) Sabato prossimi i pacifisti saranno in tante piazze italiane. Con quali propositi?

Sono decine e decine le città che hanno aderito alla mobilitazione di Europe for Peace del 23 luglio, a 150 giorni dall’inizio della guerra: una mobilitazione nazionale per far tacere le armi e per aprire un serio negoziato che porti ad una conferenza internazionale di pace.

Noi ci impegniamo a lavorare insieme PER UN’EUROPA DI PACE, con l’obiettivo di costruire una proposta di cosa deve essere e cosa deve fare l’Europa di Pace, attraverso il lavoro comune di una grande alleanza della società civile europea, che si riconosce in questi cinque punti:

  • la condanna dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e la difesa della sua indipendenza e sovranità, nonché la piena affermazione dei diritti umani delle minoranze e di tutti i gruppi linguistici presenti in Ucraina;
  • la solidarietà con la popolazione ucraina, con i pacifisti russi che si oppongono alla guerra e con gli obiettori di coscienza di entrambe le parti;
  • il rilancio della richiesta del cessate il fuoco per l’avvio di un immediato negoziato in cui sia protagonista l’organizzazione delle Nazioni Unite;
  • l’impegno per la de-escalation militare in quanto leva fondamentale per l’iniziativa diplomatica e politica;
  • la costruzione di un sistema di sicurezza condivisa in Europa, dall’Atlantico agli Urali, fondato sulla cooperazione e il disarmo per un futuro comune.